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DIALOGHI CON PAOLO RICCA
 
L’eclisse dell’amore e l’odierno degrado morale

Il cristianesimo è nato come religione dell’agàpe, cioè dell’amore di Dio per l’umanità, ma abbastanza presto, nella storia della chiesa, questo amore come tratto distintivo della comunità cristiana sembra essersi eclissato. Da tempo mi domando: quando è iniziata questa eclisse? Con la nascita del potere temporale della chiesa e della gerarchia ecclesiastica?
In relazione a questo rifletto sul fatto che da molto tempo la nostra società è pervasa da una corruzione diffusa e da un grande degrado morale. Mi chiedo: perché è così radicata nel nostro paese, nel quale tutto diventa merce di scambio e tutto si ottiene con raccomandazioni di questo o quel «potente» a qualsiasi livello? Qual è l’origine di tutto ciò? Non può dipendere, almeno in parte, dall’aver mercificato anche la fede con la vendita delle indulgenze e la concessione del perdono dopo una sbrigativa confessione vincolata al segreto? Forse non è un caso che quelle minoranze etiche e religiose che, come i valdesi, hanno voluto ritornare alle origini del cristianesimo, sappiano meglio difendersi dalla ragnatela della corruzione.

Paola Vinay – Monte Porzio Catone (Roma)

Questa lettera solleva due grossi problemi, distinti ma tra loro collegati. Il primo è quello della storia difficile e stentata dell’amore (la parola greca equivalente, nel Nuovo Testamento, è agàpe) non solo nell’umanità, ma anche nella chiesa; il secondo è quello dell’origine del degrado morale che affligge la società d’oggi, a cominciare da quella italiana. Affrontiamo i due problemi separatamente.

1. È un fatto incontestabile che il cristianesimo possa e debba essere descritto come lo descrive la nostra lettrice, cioè come «religione dell’amore», nel senso dell’amore di Dio per l’umanità. Basti pensare alla parola dell’evangelista Giovanni che esprime perfettamente l’essenziale della fede cristiana: «Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio…» (3, 16), e l’altra sua parola lapidaria: «Dio è amore» (I Giovanni 4, 8), e quest’altra dell’apostolo Paolo: «Né morte né vita, né angeli né principati (…) né alcun’altra creatura potranno separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù nostro Signore» (Romani 8, 38), per non parlare dell’insuperato e insuperabile «inno all’amore» di I Corinzi 13, 1-13. Ma prima degli apostoli, lo stesso Gesù aveva condensato «tutta la legge ed i profeti», cioè tutta la rivelazione di Dio, la sua natura e la sua volontà, nel doppio comandamento dell’amore: essere discepolo di Gesù significa «amare Dio» nel modo più totale ed esclusivo possibile («con tutto il tuo cuore e con tutta l’anima tua e con tutta la mente tua e con tutta la forza tua») e «amare il prossimo» come se stesso (Marco 12, 30-31). Si potrebbero moltiplicare le citazioni, ma non è necessario. È invece necessario aggiungere che nel Nuovo Testamento la parola agàpe designa, oltre che l’amore di Dio per l’umanità, anche l’amore dei cristiani tra loro e per gli altri. Il cristianesimo è dunque religione dell’amore sia nel senso dell’amore di Dio sia in quello dell’amore fraterno. L’agàpe rivela la natura vera e profonda di Dio ed è al tempo stesso il distintivo dei cristiani: «Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri» (Giovanni 13, 35). È cristiano chi crede in Dio che è amore e lascia che questo amore plasmi la sua vita. Credere significa entrare nel mondo dell’amore di Dio ed esserne contagiato. Una fede che non diventi amore non è fede cristiana. Se non ami, non credi; e se credi, ma non ami, non credi nel Dio rivelatosi nel popolo d’Israele e in Gesù. L’unica fede cristiana possibile è quella «operante per mezzo dell’amore» (Galati 5, 6).

Detto questo, dobbiamo però ammettere che il cristianesimo, nel corso della sua storia, non si è complessivamente configurato come religione dell’amore. Certo l’amore di Dio è sempre stato insegnato, ma non si può dire che sia riuscito a plasmare l’intera vita della chiesa, tanto che a nessuno verrebbe oggi in mente di scrivere la storia della chiesa come storia dell’amore. È vero, e non va dimenticato, che la chiesa ha svolto nel corso dei secoli una imponente opera di beneficenza. Nessun’altra istituzione umana, a mia conoscenza, ha mai realizzato tanta beneficenza quanto la chiesa cristiana. Ma neppure la storia straordinariamente ricca della diaconia cristiana basta a caratterizzare la storia cristiana come storia dell’amore: come storia della beneficenza, sì; come storia dell’amore, no. Si dirà: Ma la beneficenza è un atto d’amore! Senza dubbio lo è, ma l’amore è molto più che beneficenza, che ne realizza solo una piccola parte. Potremmo dire che la chiesa cristiana, alla luce della sua storia, è stata senz’altro chiesa della beneficenza, ma non ancora chiesa dell’amore.

Come mai, si chiede la nostra lettrice, l’amore non ha connotato di più la storia cristiana? L’eclisse, almeno parziale, dell’agàpe ha forse coinciso «con l’inizio del potere temporale e della gerarchia ecclesiastica»? Credo che l’eclisse sia iniziata prima. Gesù stesso aveva previsto che in un futuro non lontano «l’agàpe di molti si raffredderà» (Matteo 24, 13) e già nel secolo apostolico la chiesa di Efeso viene rimproverata per aver «abbandonato il suo amore di prima» (Apocalisse 2, 3): dunque l’amore si era raffreddato non solo nel mondo, ma anche in qualche chiesa. Perché? Penso per il divorzio, consumatosi assai presto, tra verità e amore. Queste due realtà, che nella fede sono inseparabili come lo sono in Dio, nel quale la verità è l’amore e l’amore è la verità, si sono perse di vista nella pratica e nella stessa coscienza cristiana, cosicché l’amore della verità e la verità dell’amore hanno dato vita a due storie parallele che non si sono più incontrate. È così potuto accadere che la chiesa antica abbia formulato l’essenziale della fede cristiana nel Credo detto «apostolico» e in quello di Nicea e Costantinopoli, senza mai neppure menzionare la parola «amore», senza mai dire apertamente che Dio è amore. Si dirà: era sottinteso. Ma l’amore di Dio non può essere sottinteso! Dal divorzio tra amore e verità è cominciata l’eclisse dell’amore. Si è creduto di poter essere nella verità senza dimorare nell’amore. Così, in nome della verità, si è tante volte messo l’amore sotto i piedi. In nome della verità si sono accesi roghi, perseguitati eretici e infedeli, scomunicati dissidenti, indette crociate interne ed esterne, compiute violenze di ogni tipo, fisiche, morali e spirituali. In tutto questo il potere temporale ha certamente svolto un ruolo non secondario, ma neppure preponderante: l’accettazione da parte della chiesa di questo potere non è la causa, bensì piuttosto l’effetto dell’eclisse dell’agàpe. Oggi stiamo faticosamente prendendo coscienza del nesso vitale che esiste tra verità e amore, ma sarà necessaria una nostra profonda conversione per imparare a «vivere nella verità e nell’amore», come dice l’apostolo Paolo (Efesini 4, 16) e come da sempre accade in Dio.

2. Al secondo problema, quello dell’odierno degrado morale, non è facile rispondere. La «ragnatela della corruzione», come la chiama la nostra lettrice, è sotto gli occhi di tutti. Sicuramente, come lei stessa suggerisce, la morale cattolica ha la sua parte di responsabilità: la mercificazione della fede, la grazia a buon mercato (come la chiamava Bonhoeffer), il ricorso al «santo protettore» celeste o terreno per ottenere grazie e favori, sono tutte possibili concause della profonda depressione morale e civile di cui soffre il nostro paese. Così pure non si può non accennare alla scarsa coscienza civile di molti italiani, che considerano le leggi che regolano la vita associata non già un aiuto che la favorisce, ma un ostacolo che impedisce l’individuo nella piena affermazione di sé, e vedono nella cosa pubblica non già un bene al quale contribuire, ma un mezzo da sfruttare il più possibile al servizio di interessi privati e tornaconti personali. In molti italiani è debole il senso dello Stato, non avvertito come istanza superiore al servizio dell’interesse collettivo, ma come fonte di facili guadagni da cui trarre profitto. Sono cose che sappiamo e ripetiamo e hanno tutte il loro valore. Ma quando ci si interroga sull’origine della malattia, le opinioni divergono. I cattolici diranno che è colpa della secolarizzazione, i laici diranno che è colpa di una certa morale e cultura cattolica. C’è qualcosa di vero nelle due posizioni. Ma forse bisogna andare più in profondità ancora. Calvino, al termine dei suoi giorni, convocò i pastori e altri ministri di Ginevra al suo capezzale poco prima di morire e rivolse loro un «discorso d’addio» nel quale rivelò il movente segreto della sua vita e della sua opera riformatrice in questi termini: «La radice del timore di Dio è stata nel mio cuore». Forse è questa la ragione ultima dei nostri mali: l’eclisse del timore di Dio non solo nella società laica e secolarizzata, ma anche e non meno nella chiesa, che crede in Dio, ma non ha timore di Dio. Che cosa vuol dire «temere Dio»? Vuol dire prenderlo sul serio. Il mondo secolarizzato non lo prende sul serio. Ma anche la chiesa, che dice di credere in lui, in realtà crede solo in se stessa: prende sul serio se stessa più di Dio. Nessuno prende sul serio Dio. E allora tutto diventa possibile, e tutto il possibile diventa lecito, perché Dio è fuori gioco e noi siamo i padroni, tutto è nelle nostre mani: la legge e la sua trasgressione, la verità e la menzogna, la realtà e l’apparenza, per cui possiamo impunemente chiamare bene il male, e male il bene (Isaia 5, 20). Dall’eclisse dell’agàpe all’eclisse del timore di Dio: quando vedremo la luce? Quando capiremo, come comunità cristiana e come città dell’uomo, che verità e amore sono inseparabili e che «il timore dell’Eterno è il principio della sapienza» (Proverbi 9, 10) – sapienza della vita, oltre che della fede.

Tratto dalla rubrica Dialoghi con Paolo Ricca del settimanale Riforma del 26 marzo 2010

 
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