Il libro, di pubblicazione recente, particolarmente interessante in ottica protestante, è quello di Mario Miegge, Vocazione e lavoro, edito dalla casa editrice Claudiana nella sua collana Studi Storici/Saggi. Il nome di Mario Miegge, professore emerito dell’Università di Ferrara, dove ha insegnato filosofia teoretica e filosofia delle religioni, è associato in modo quasi naturale al calvinismo anglosassone (campo in cui si è segnalato per un saggio fondamentale, Il sogno del re di Babilonia, apparso da Feltrinelli nel 1994) e in modo particolare alla sua impostazione del problema etico. Non sorprende dunque che il suo ultimo saggio rechi il titolo: Vocazione e lavoro.
Corposo, senza essere prolisso, come tutti i lavori di Miegge, lineare ed accessibile al lettore mediamente informato, affronta il problema che dall’epoca di Max Weber costituisce uno dei nodi del dibattito culturale sulla frontiera fra sociologia e teologia. A questo tema Miegge ha dedicato nel 1985 un saggio apparso nella collana "Pugillaria" dell’editore ferrarese Bovolenta; il problema è stato ripreso ed approfondito nel Vocation et travail. Essai sur l’éthique puritaine, Ginevra 1989, ulteriormente rielaborato nell’articolo "capitalisme" dell’Encyclopédie du Protestantisme, 1995.
L’indagine di Miegge si muove a due livelli. Il primo, a carattere storico espositivo, procedendo ad una esposizione di testi ed autori significativi del mondo puritano, si incentra su tre figure emblematiche: William Perkins e il suo Treatise of vocations, Richard Steele e il Tradesman’s Calling, Richard Baxter autore del Christian Directory. Tre uomini e tre testi che segnano, dalla fine del Cinquecento alla fine dei Seicento, il percorso della teologia puritana sul tema dell’impegno che il credente è chiamato ad assumere nel mondo.
A Perkins, figura di eccezionale rilievo nell’epoca elisabettiana, si deve l’impostazione del problema: la fede è sostanzialmente la risposta del credente ad una chiamata divina che egli definisce una "calling", una vocazione a vivere conformemente all’Evangelo; vocazione generale, rivolta a tutti (e non solo agli uomini di chiesa, sacerdoti e religiosi). A questa però si associa una "particular calling", una chiamata personale, specifica che Dio rivolge ad ognuno, affidandogli un compito nella costruzione della società. L’essere magistrato, predicatore, padre di famiglia, artigiano, contadino non è una condizione di vita di carattere unicamente personale di natura socio-economica, ma risponde ad una missione, un compito finalizzato alla vita associata.
Questo impianto teologico resterà presente anche in seguito ma le condizioni politiche ed economiche del mondo occidentale in particolare nell’Inghilterra dopo il Commonwealth ne modificheranno i contenuti. L’accentramento del potere monarchico, riducendo fortemente la partecipazione dei singoli al governo, e lo sviluppo dei mercati, muterà anche il concetto di vocazione. Il mutamento che si registra in modo evidente nell’opera di due predicatori del neo puritanesimo della seconda metà del secolo, Richard Steele e Richard Baxter.
Nell’opera di Steele, pastore della city londinese, la vocazione che sta alla base della vita cristiana mantiene il carattere di una chiamata ma non è più la sovrana autorità divina che determina la vita, è piuttosto un suo orientamento programmatico, il suo Dio è simile ad un dirigente d’azienda che distribuisce i compiti e gli incarichi secondo i criteri dell’Utile. In quest’ottica tutte le vocazioni sono da porsi sullo stesso piano, egualmente utili al "comfort and welfare of humanity". Il riferimento non è più la repubblica ma l’umanità, lo schema è quello naturalista della civil society di Locke. Tutte le vocazioni sono ricondotte nell’elenco di Steele ad una attività a carattere professionale che vede al primo posto quelle che si occupano dell’anima, maestri predicatori (tutors e divines) e da ultimo i magistrati, che garantiscono la pace e la sicurezza. Rovesciando lo schema di Baxter. Non più rispondente ad una chiamata assoluta che giunge dalla Parola, dall’esterno, ma calata nella razionalità della natura umana l’etica, l’agire umano tende al moralismo.
Virtù in questa prospettiva è la prudenza, capacità di mettere ordine nella propria vita tanto interiore che sociale: controllo di sé e delle circostanze, valutazione delle capacità, della propria condotta dello stato dei propri affari e del business. La razionalità dell’agire diventa criterio di vita, una interiorizzazione del mercantilismo londinese proiettato in una dimensione religiosa.
In Baxter il lavoro non richiede più la legittimazione dalla vocazione, di cui sarebbe espressione concreta, è di per sé valore normativo, ogni lavoro diventa il principio, l’ordinamento della vita. L’uomo è essenzialmente creatura all’opera, homo laborans e questo implica che la vocazione, non dovendo più fare riferimento ad una chiamava divina, si riduca ad ad essere una mera determinazione professionale che ha continuità nel tempo, e cioè la possibilità di realizzare un capacità naturale: imprenditore o musicista, magistrato o predicatore.
L’uomo è chiamato a lavorare perché è un comandamento divino, perché preserva così le sue capacità intellettive e la sua salute, giova alla vita associata e si procura il cibo. Ribaltando lo schema della filosofia classica, che vedeva il lavoro esclusivamente come mezzo di sussistenza, Baxter fornisce una lettura del lavoro connaturata alla natura dell’uomo, l’uomo non vive per lavorare né lavora per vivere ma per essere se stesso nell’assommare la sua vocazione e la sua natura.
Su questo livello di indagine volto a comprendere il passato Miegge ne innesta però un secondo di natura filosofica che si apre sulla modernità. A fornire lo spunto è il saggio di Annah Harend e la sua gerarchia dell’attività umana nei termini: labor, work, action. Il primo definisce il piano materiale della fatica quotidiana, è finalizzato alla sussistenza, il secondo è l’opera in cui l’uomo si realizza, solo l’azione però è quello che fa la storia. Miegge prende le distanze da questo schema che giudica eccessivamente riduttivo, non solo alla luce dei testi puritani analizzati prima, ma perché il lavoro ha ormai ben altro significato che quello di una operazione di pura manualità, è un’attività, un'opera in cui l’individuo e la società trovano una espressione di sé, Hegel poteva parlare della Storia come del lavoro dello Spirito e Marx leggere la rivoluzione come un lavoro.
Questo confronto con la Harend conduce alla parte finale del saggio intitolato "Lavoro e vocazione nel tempo della crisi (2009)". Qui l’autore facendo convergere storia e filosofia riflette da cittadino di uno stato moderno (o posto moderno?), che ha fatto lavoro politico e si vede circondato da precari e maghi della finanza, che non lavorano e neppure si realizzano nell’action, in una società polverizzata che vive di lavoro flessibile.
Non si tratta però di una postilla, un post scriptum, in cui lo storico formula ipotesi personali, esprime se stesso collocandosi nell’attualità, e neppure è l’elaborazione organica di un progetto che si potrebbe proporre ad una formazione politica come programma elettorale. Si tratta di riflessioni pertinenti, di glosse critiche all’interrogativo che la società contemporanei si pone, ed a cui non sa (e forse non può) dare risposte definitive, "domande pertinenti sul senso del lavoro", sull’ "Impero del breve periodo", su "Lavoro e impegno civile", per usare i titoli dei paragrafi del discorso di Miegge.
E’ evidente che la lettura puritana di Baxter e dei suoi successori ha fecondato la società moderna, la sua visione del labour e del work, ma è altrettanto vero che in quella sorta di tsunami culturale, che dalla fine del XX secolo sconvolge la società globalizzata, si tratta ormai di spezzoni di lettura del mondo, di frammenti di identità che hanno perso la loro valenza di quadro organico della vita. Non a caso la copertina del volume accosta tre immagini simboliche: il contadino del Christian Directory di Baxter sta al centro, avendo però come sfondo i mercanti olandesi di Rembrand in alto e in basso il Chaplin dei tempi moderni. Siamo forse , uomini odierni, la somma dei tre e nessuno dei tre.
14 settembre 2010 |