Il libro, che nel quadro della nostra riflessione di cristiani evangelici, riteniamo dover segnalare, sia pure con qualche ritardo, in questa rubrica, è il penultimo saggio di Vito Mancuso; meritevole di attenzione per una serie di motivi.
Anzitutto per l’autore. Personaggio assai interessante e significativo, nella galassia del cattolicesimo italiano ha ormai il suo ruolo definito, quello di portavoce coerente e convincente del dissenso. E questo lo rende particolarmente autorevole presso la stampa laica, non a caso è firma su La Repubblica, che vede in lui una voce critica, di tenore quasi profetica, per una rifondazione del cattolicesimo, forse con qualche equivoco non essendo infatti sempre chiaro se per “Roma” si tratta di essere più moderna o più autentica. più aggiornata, rispondente alle attese dei tempi o più rispondente alla sua natura, alla sua vocazione che dir si voglia, o le due insieme.
La posizione dell’autore è chiara: «Io non ci sto più, ma resto dentro, anche se non mi volete, resto perché questa è casa mia»; è la linea classica del dissenso organico nella chiesa romana, quella di molte delle migliori figure del cattolicesimo moderno, da Buonaiuti a Küng. Il nostro autore ha pieno diritto di rivendicare il suo posto nella chiesa di cui si sente figlio (la chiesa materna, della madre naturale e di quella spirituale, la Mater misericordiosa) ed ha perfettamente ragione perché la sua teologia è pienamente cattolica anche se si presenta sotto aspetti un tantino originali.
Il volume in oggetto, corposo, consta di oltre 450 pagine in 10 capitoli; ad alcune pagine introduttive di carattere metodologico: concetto di religione, prove dell’esistenza di Dio, seguono quelle in cui è esposta la tesi: “Il mio Dio”. A costituire il corpo del volume sono due parti, in cui si delinea il percorso di fede ritenuto appropriato. La prima parte, critica, confuta i percorsi teologici delle due confessioni: quello cattolico (della chiesa) e quello protestante (della storia, sarebbe più esatto dire: il percorso biblico); nell’ultima viene formulato la tesi per una fede cristiana moderna.
Il lavoro può considerarsi come i prolegomeni ad una dogmatica cristiana del XXI secolo. a cui farà seguito (lo annuncia l’autore) la trattazione dei temi classici: Dio, Cristo, lo Spirito, la Chiesa. Come in tutte le dogmatiche i prolegomeni forniscono le premesse da cui si deducono gli orientamenti del discorso teologico.
Ogni autore sceglie gli strumenti che ritiene più adatti al suo progetto, ma sarebbe forse stato preferibile un testo più sintetico, nello stile del pamphlet (di alto livello va detto subito), in cui l’autore eccelle, piuttosto che nella forma della trattazione erudita, non era forse necessario e utile per la comprensione della tesi rispondere a tutti gli interrogativi rovesciando nelle note l’intero schedario delle sue letture. Il saggio precedente, La vita autentica, ad esempio, si presentava con forma e linguaggio ideali; ma torniamo al testo.
Quale è l’orientamento del suo discorso? Rischiando pericolosi corto circuiti vorremmo leggerlo sintetizzato in questa citazione:
«Il mio assoluto» dice Mancuso «non è Dio, inteso come “essere perfettissimo, creatore e signore” del tutto, distinto dal mondo e da me, e non è neppure Gesù Cristo. Il mio assoluto, il mio dio, ciò che presiede la mia vita, non è nulla di esterno a me ... è il bene, l’idea e la pratica del bene ... il bene ... relazione armoniosa fra i diversi elementi che ci costituiscono che si dice come salute ... che nell’ambito della libertà si dice come giustizia ... tutto questo esiste per inattesa generosità dell’essere – energie, in linguaggio teologico detto grazia ... credere l’esistenza di tale bene rimanda ad un Bene eterno, sussistente, Sommo Bene, definibile come Dio (p. 173-74).
Il percorso è evidente: «si può parlare di Dio in modo veritiero veridico proprio partendo dall’io» perché, come dice Meng-tzu: colui che va in fondo al proprio cuore conosce la sua natura e conoscendola conosce il Cielo (p.423).
Questo significa «assegnare il primato alla vita togliendolo alla dottrina» (p.440) cioè al dogma, «comprendere che la vita viene prima della ragione» (p.148). La vita è retta essenzialmente dall’etica, e questa più che comportamento corretto è comprensione dell’Assoluto; «quando la dimensione etica al di là del comportamento personale arriva a voler abbracciare il senso complessivi del mondo» diventa «autentica religiosità» (p.403). Naturalmente il nostro autore intreccia una appassionata discussione con il maestro dell’etica Immanuel Kant.
Il criterio dell’etica, cristianamente intesa, è l’amore, senso dell’esistenza, perché il concetto dell’amore costituisce la chiave di lettura di tutto il discorso cristiano.
«Ciò che fa sorgere il mistero della vita è l’amore, e il senso del mistero è ciò che fa sorgere la fede in Dio: esperienza dell’amore senso del mistero fede in Dio» (154), e «la Scrittura non ha altro valore che manifestare alla vita qui e ora che il vero senso dell’esistenza è amore» (p.340).
Un’etica dell’amore o l’amore realizzato in etica è molto più che mera prassi, è partecipazione, slancio, visione perché «la fede è anzitutto un sentimento» (p.435); me è l’organo privilegiato perché è il cuore che sente Dio, non la ragione, così Pascal (p. 143).La citazione è esatta ma la sua interpretazione è discutibile, il cuore non è per il solitaire di Port Royal il sentimento, ma la consapevolezza delle realtà che trascendono la ragione, il sentimento è Shleiermacher, sono i romantici.
Ma il nostro autore si professa cristiano e lungo le centinaia di pagine del suo testo si dibatte con gli interrogativi del credo cristiano, che posto occupa in esse Gesù Cristo? A lui, giustamente chiamato con suo nome Yeshua, sono dedicate molte pagine, prendendo le mosse dall’affermazione secondo cui la fede nasce dall’incontro con lui. Nessuno però oggi incontra quest’uomo ma solo le narrazioni e le immagini elaborate dai testi e dalla tradizione. Una vita pietrificata nel dogma e nei concetti. Stando all’impostazione del discorso condotto sin qui «ciò che in Gesù Yeshua affascina sono le sue parole e la testimonianza di vita indipendente dalla risurrezione» (p.318). Già lo vedeva così Castellion nei suoi Dialoghi. E a questa figura non cristica ma gesuatica del credo si può riferire una frase del nostro autore che suona come confessione di fede: «Voglio essere semplicemente un uomo, un uomo accanto ad altri uomini che crede nel bene e nella giustizia, che crede nell’amore» (p.186).
Sintetizzare in termini così schematici un discorso assai complesso e articolato, inevitabile in una segnalazione, è ai limiti dell’assurdo; molte sono infatti in queste centinaia di pagine le annotazioni che meriterebbero un esame accurato e un approfondimento ma l’ipotesi di fondo ci sembra sufficientemente chiara.
Quello che ci preme in questa sede però è porre in evidenza due interrogativi che abbiamo avvertito percorrere in modo sotterranee il testo. Il primo prende spunto dai referenti culturali e teologici di tutto il discorso, dai maestri del nostro autore, non sono impliciti ma evidenti: in campo filosofico Immanuel Kant, in quello teologico Albert Schweitzer.
Anche se ovviamente il teologo più citato è Ratzinger e naturalmente anche Tommaso d’Aquino, a dare l’orientamento è proprio quel personaggio noto agli italiani come il medico di Lambarené, premio Nobel, e ai musicologi raffinati il grande interprete di Bach. Che si occupasse di teologia è dato sconosciuto ai più, in realtà è uno degli esponenti più significativi del protestantesimo liberale con Hermann, Harnack Troeltch e come loro studioso di eccezionale livello.
Tutto quanto si legge nel testo di Mancuso riguardo alla teologia cristiana è già stato scritto da questi personaggi un secolo fa, e proprio per stroncare l’influenza, che la loro riflessione nel campo delle scienze bibliche aveva in casa romana, il papa ha emanato nel 1909 l’enciclica Pascendi.
Forse a distanza di un secolo la teologia cattolica può considerarsi vaccinata contro quell’epidemia? Pare di sì; al Biblicum a Roma la critica biblica è ormai di casa e può essere integrata in un sistema blindato dal dogma e dal magistero. l capitolo del nostro saggio sulle fonti bibliche, sul Gesù storico, la risurrezione sono esemplari al riguardo.
A questo punto sorge però l’interrogativo: perché, a differenza dei progressisti che leggono Barth e annettono Bonhoeffer, Mancuso si rifà ai liberali? Forse perché, come diceva Barth nei prolegomeni della sua Dogmatica, le loro tesi sono del tutto affini a quelle del cattolicesimo.
In sostanza una teologia dell’amore, visto come struttura portante del messaggio evangelico (che papa Woytila, più comunicatore che teologo, ha risolto nel romanesco “volemose bene”), il Gesù uomo esempio di bontà e sofferenza, la fede vissuta nell’etica. Una religione che affonda le radici in un’ antropologia ottimista ispirata al libero arbitrio e la ragione, è sostanzialmente la teologia del liberalismo protestante, come si è venuto delineando nel tempo in un percorso contrastato e complesso; a quella si ispira la riflessione di Mancuso.
Qui sta l’aspetto pericoloso del suo discorso (per Roma!), non per le critiche alla chiesa, ma perché si appropria di un pensiero che da decenni vive nella cultura moderna e ne costituisce l’aspetto teologico. Quello che, dalla porta socchiusa del Vaticano II, rischia di penetrare nel cattolicesimo moderno non sono Lutero con la sua teologia dirompente del paradosso, della grazia assoluta, e Calvino con la sua sovranità divina, e neppure è l’Illuminismo coltivato dai nostri laici, fermi allo scontro Serveto-Castellion (la teologia mortifera e la libera coscienza), con pennellature di razionalismo pre kantiano, è ben altro, è il neo protestantesimo, il liberalismo teologico. E di questo è ben consapevole il teologo Ratzinger, che quei teologi ha frequentato in Germania ed a cui contrappone il Neo Tomismo di Ratisbona.
Vivendo però nel XXI secolo le letture liberal protestanti del cristianesimo vanno aggiornate e ed è questo il secondo aspetto del volume che merita attenzione. Il neo protestantesimo è cresciuto, dialogando con la cultura sui grandi temi: la religione, la ragione, la storia, la libertà; oggi il grande interrogativo è posto dalla scienza, dai suoi risultati, delle sue ipotesi, dalla sua metodologia.
Mancuso ne è consapevole e questa consapevolezza anima implicita, il suo testo.
Il suo titolo “Io e Dio” è geniale (su cui si potrebbe, a dire il vero, aprire un dibattito appassionante! Chi è quell’Io che si presenta con la maiuscola? Quello del credente o della psicologia del profondo? Non bastava dire io e Dio? Non sarebbe più pertinente dire Dio e me? Troppo luterano!), geniale, diciamo, perché traduce esattamente il senso della sua ricerca: in una realtà (perciò una esistenza) sentita come energia, il senso sta nel fine e non nell’origine. Il senso della vita biologica naturalmente forse anche dell’esistenza?
Ma il logos giovanneo, diventato carne, si può ridurre a chiave di lettura dell’esistenza o assume, nella dinamica dell’energia, ruolo strutturale? A questo riguardo incombe sul testo il pensiero del gesuita eretico Teilhard de Chardin (citato 6 volte). Il suo dossier andrà riaperto prima o poi perché quello è il vero nodo speculativo che i teologi dovrebbero impegnarsi a definire.
«Il cristianesimo, unione di Gerusalemme e Atene, crede nell’uomo, nell’uomo in quanto capace di amare, di volere, di sperare» (p.162). Enunciato, anzi professione di fede, estremamente coraggiosa quella di Mancuso, perché quell’uomo, che vede nell’amore il senso ultimo del suo vivere, lo deve ripensare dopo Auschwitz e Hiroscima; convinto dalla scienza di non essere oggetto di un progetto intelligente ma del caso, muovendosi fra le infinite contraddizioni dell’esistenza può ritenersi in grado di in grado di scoprire Dio inteso come suo fine (nel duplice senso di meta, e di termine)? Il problema resta aperto.
3 maggio 2012 |