Con “I protestanti. Una cultura”, Giorgio Tourn conclude una impegnativa trilogia tesa ad affermare una tesi netta e chiara: tra le luci e le ombre della storia, compresa quella propria, il protestantesimo è stato un potente vettore della modernità. E così, dopo aver ricostruito gli effetti della “rivoluzione protestante” sulla teologia e più in generale sul modo di pensare e vivere la fede nel primo volume, e dopo aver analizzato i modelli di società che si sono determinati a partire dalle idee di Lutero e di Calvino nel secondo, Tourn ricostruisce ora la trama della cultura protestante in un arco di tempo che attraversa quattro secoli. Citando Bach e il Gospel, la tolleranza di John Locke e il Sudafrica arcobaleno di Nelson Mandela, la santificazione dei fratelli Wesley e il neopuritanesimo di Martin Luther King, le epiche esplorazioni di John Livingstone e l’azione umanitaria di Albert Schweitzer, Tourn scolpisce una galleria di ritratti che sostiene efficacemente la tesi fondamentale della sua opera. A volte la carrellata si interrompe per proporre dei quadri d’insieme, come quello dedicato ad esempio al missionarismo protestante e alla sua rischiosa prossimità con il colonialismo inglese. L’autore sottolinea la peculiarità dell’azione dei missionari protestanti rispetto a quelli cattolici, molto più decisi e risoluti nell’affermare che la fede cristiana implica necessariamente una “conversione” e quindi una rottura rispetto a tradizioni e forme religiose preesistenti. D’altra parte, però, non nasconde che questa impostazione abbia prodotto effetti discutibili, non ultimo quello di “trasferire, anche se inavvertitamente, i propri schemi teologici nella nuova realtà” (p. 318). Pensando all’epos delle grandi esplorazioni concepite nel milieu culturale protestante emerge netto il chiaroscuro di una missione che faceva di Gesù Cristo e della civiltà anglosassone un tutt’uno pressoché indivisibile nel quale coesistevano indubbi elementi di progresso ma anche di “ingenuità, sopravvalutazione della civiltà europea”(p. 325).
La svolta tra Ottocento e Novecento, tra l’ascesa e il declino di una modernità che si fa più complessa e sfilacciata sino a perdere la sua forza “propulsiva”, il protestantesimo perde di centralità: l’Europa - e siamo ai giorni nostri - diventa “progressivamente periferia del mondo, nel disegnarsi di una nuova mappa mondiale” (p. 386) per cui il vettore protestante più energico e dinamico si registra nel sud del mondo piuttosto che nei territori della vecchia Europa. Resiste nel nord America ma in forme complesse e distanti da quelle tradizionali e più note.
Ma se l’espansione quantitativa del protestantesimo e l’egemonia protestante sui processi di modernizzazione inizia a rallentare, la dialettica tra teologia e cultura riformata si mostra ancora vitale e fruttuosa: pensiamo all’irruzione delle “scienze religiose” distinte dalla teologia – il saggio di Rudolf Otto sul “sacro” è del 1917 – e alla tensione tra teologia liberale da una parte e la nascente scuola “dialettica” dall’altra. I nomi sono quelli ben noti anche in Italia, primo tra tutti Karl Barth, mentre l’idea chiave di un Dio “totalmente altro” rispetto al processo storico e alla cultura secolare determina una paradossale alterità – quasi un divorzio – tra fede e cultura. In questa prospettiva “il messaggio evangelico non è una filosofia della vita – spiega l’A. – la sublimazione dell’umano ma un annuncio significativo che incide da oltre e incide nell’esistenza” (p. 402): da qui la rottura con l’idea hegeliana della storia come “autorivelazione dello Spirito”, processo razionale finalizzato a un ordine assoluto o al progresso ascendente verso il realizzarsi di un’umanità felice, come sognavano i positivisti. E così, forse anche al di là delle intenzioni, il protestantesimo barthiano riscopre l’esclusiva centralità delle sue radici bibliche ma probabilmente – tema sul quale sarebbe interessante si aprisse un dibattito – si distingue dalla “cultura” affermando l’alterità esclusiva della fede cristiana. Questa impostazione fu la risorsa preziosa della resistenza al nazionalsocialismo ma, in un tempo di globalizzazione e di insorgenza delle “culture” come rilevanti attori sociali, rende più difficile quella relazione feconda tra fede e “cultura” che costituisce il basso continuo del volume ma, in un certo senso, dell’intera trilogia.
Il saggio, e con esso l’opera in tre volumi, si conclude con una serie di interrogativi su quello che potremmo definire il “decentramento protestante” rispetto a quel processo culturale che convenzionalmente si definisce postmodernità. Se, infatti, il paradigma di un nesso stretto e fecondo tra protestantesimo e modernità regge bene alla verifica storica dell’età dello sviluppo e della crescita che appariva illimitata, appare più fragile e sbiadito in un’era nuova, il cui esito appare precario e informe, liquido secondo la celebre formula di Bauman. “Ne sono documento – conclude Tourn – le teologia femminista, nera, della liberazione che, destrutturato il pensiero dogmatico tradizionale, lo ristrutturano partendo da un’ermeneutica della Scrittura in chiave di esperienza. Ma ne è anche in misura ancora maggiore il crescere esponenziale delle spiritualità carismatiche e delle letture fondamentaliste” (p. 485).
Accennato un tema così ampio, l’autore si ritrae consapevole che a questo punto il lavoro dello storico si conclude per fare spazio alla cronaca e all’analisi sociale. La ricollocazione del protestantesimo nello spazio pubblico postmoderno resta infatti una sfida aperta: tanto più in un tempo che sembra restituire spazi e ruolo alle religioni. Non è il ritorno al sacro invocato dai nostalgici di un tempo antico che non tornerà mai più. Sembra piuttosto il tempo di religiosità fluide e complesse, trasversali ed esperienziali, probabilmente post- denominazionali. A chi non voglia perdersi nel vacuum di approdi ancora ignoti e non prevedibili, il libro di Tourn offre un riferimento solido e utile a capire, se non dove andremo, almeno da dove veniamo.
22 gennaio 2013 |