Non so bene perché, ma ho la sensazione che questo versetto sia caduto in disuso, specie nella sua prima parte. Abbiamo imparato a convivere con la morte, ad abbellirla, a considerarla dopo tutto un aspetto della vita, e la sua drammaticità è come sbiadita. Non so bene perché, ma questo versetto mi viene in mente tutte le volte che un evento distruttivo come un terremoto, un’inondazione, uno tsunami, un’epidemia, un’eruzione vulcanica distrugge cose e case, e insieme con esse spazza via anche persone buone e intelligenti, anziani che potrebbero arricchire gli altri con la loro saggezza, bambini che hanno ancora intatto il loro enorme potenziale di vita (sono da un po’ «sotto tiro» Haiti e l’Indonesia).
Voglio mettere subito in chiaro, a scanso di equivoci, che, se di fronte a un evento tragico mi viene in mente questo versetto, non mi sfiora neanche da lontano l’idea che quell’evento materializzi un castigo divino. Ho ben presente che, ricordando una sciagura accaduta a Gerusalemme (il crollo di una torre che aveva ucciso diciotto persone), Gesù esclude in modo categorico che quei diciotto fossero più peccatori degli altri (Luca 13, 4). Ma allora, perché mi vengono in mente le parole di Paolo quando si verifica una sciagura?
Ho quasi la sensazione che, con la morte di tante persone incolpevoli – e quasi sempre si tratta di gente che le leggi dell’economia e del mercato considerano un peso o poco più – l’umanità paghi il prezzo del proprio peccato, della propria incuria, della propria incapacità, o peggio, del proprio egoistico rifiuto, di mettere in campo anche per gli ultimi della terra quelle sicurezze che sono logicamente ovvie e tecnicamente possibili, dalla protezione dei boschi alle costruzioni antisismiche... e l’elenco potrebbe essere lungo. Però gli ultimi della terra, se sono un peso per le leggi del mercato, sono un bene prezioso agli occhi di Dio, che ce li dona come fratelli e sorelle. In loro, fra l’altro, Gesù si identifica (Matteo 25, 40).
E allora, pensare che «il dono di Dio è la vita eterna» non è soltanto pensare che quanti sono stati travolti da una catastrofe vivono in Dio in una dimensione ultraterrena, ma è prendere coscienza del fatto che Dio irrompe nella vita dell’umanità. Irrompe nella nostra vita, per quanto insignificante la possiamo considerare, e la arricchisce del suo perdono... e delle sue esigenze. Vivere il presente come dono di Dio consiste appunto nel renderci conto che gli altri, lontani e diversi, non sono masse trascurabili, ma sono carne della nostra carne, e trarne le conseguenze. Non per nulla, Paolo precisa che il dono di Dio è la vita eterna «in Cristo Gesù». La sua morte e la sua risurrezione sono segno e promessa di una umanità in cui non io, ma l’altro/a sta al centro delle mie preoccupazioni. Sono criterio e misura del nostro agire.
Tratto da Riforma del 19 novembre 2010 |