Terreno duro e rinsecchito dal vento. Crepe alla mercé dei raggi di sole cocente, che si prolungano oltre l’estate. Non un vapore dalle zolle né una nube di nebbia dal cielo. Il contadino conserva la memoria di altre semine, forse dell’ultima mietitura. Ma ora deve spargere i granelli di frumento presi da altri raccolti: senza pietà cadono un po’ dappertutto, sotto i piedi, tra i sassi, nel fosso vicino. Si dovrà ripetere il miracolo, se così vorrà il Dio del cielo e della terra. Germoglierà ancora un filo verde dal pulviscolo secco, matureranno a loro tempo quei chicchi, che – separati dalla pula – sfameranno lui, la sua famiglia, le moltitudini di popoli in attesa. Ma quanto lavoro, quanto spreco di energia e di ansie, quanta speranza investita! Per fare un pane ci vuole un chicco che muore, tanti chicchi. Così, almeno, nella Palestina percorsa da Gesù.
Oggi il mestiere del vivere ci impone di investire i nostri chicchi senza neanche riflettere su che cosa stiamo seminando. Spargiamo progetti e idee, talvolta discordie e malcontento. E se fossimo noi il seme che deve essere seminato e che deve morire perché porti frumento da condividere, sostanza per la vita, gioia e festa? Siamo riconoscenti al nostro Signore perché ci ha donato come un pane spezzato il suo corpo, perché noi avessimo la vita in abbondanza: "In verità, in verità, vi dico che se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore, produce molto frutto" (Giovanni 12,24) E se questo detto solenne del Signore si estendesse anche ai discepoli, suoi fratelli e sorelle? Se siamo il suo corpo, forse tocca anche a noi questa discesa tra le zolle aride, la perdita dell’io nell’oscurità della terra, per poi risorgere.
"Non ancora!" esclamerà qualcuno irritato. "Adesso voglio vivere. E voglio stare in superficie". Ma se la nostra vita unita a Cristo nel qui ed ora fosse scandita proprio da questa duplice dimensione del morire a noi stessi e vivere a Dio? Uno scendere ed un risalire? Un perdere per riguadagnare? Un essere umiliati per essere innalzati?
Il grano di frumento deve morire per portare frutto, deve morire per dare nutrimento. La morte è solcata nelle cose, è insita nel creato, tutto fin dal principio trova il suo significato nella morte del Signore.
Il tempo di semina guarda al tempo della messe. È anche tempo di verifica: che cosa vogliamo raccogliere? Che cosa stiamo seminando? Il frumento servirà a fare tanta farina da impastare per sfornare tanto pane da distribuire e condividere, perché al banchetto ci sia cibo in abbondanza per tutti. Il regno di Dio non è forse celebrazione di gioia, di condivisione, un tornare a casa?
Giungiamo finalmente a capire perché esistiamo, quando veniamo liberati dall’ossessione di dover contare qualcosa in superficie. Scopriamo di contare davvero, quando in comunione esprimiamo la nostra riconoscenza al Signore ponendoci al servizio gli uni degli altri.
Come parole di carne, seminiamo noi stessi e i nostri giorni – una vita, una parola caduta in terra. Dai chicchi di grano duro, seminati nei solchi della violenza, della paura, dell’ozio, un raccolto pure ci sarà. Tratto dalla Circolare della Chiesa valdese di Verona |