Che cos’è il peccato? Mi capita spesso di affrontare questa domanda. So che la riposta non può che essere complessa, credo tuttavia che valga la pena riflettere su questo concetto che costituisce un elemento particolarmente visibile nella parte iniziale della Prima lettera di Giovanni. Il termine è declinato sia al singolare sia al plurale e questa grammatica si avvicina parecchio al nostro sentire comune; anche noi spesso e volentieri alterniamo il singolare al plurale. Nel greco classico il termine ‘hamartia’ significa “errore di giudizio”. La sua etimologia è mutuata però dal tiro con l’arco e allude all’errore di non cogliere il segno, di mancare il bersaglio. Si tratta però di un errore che può essere corretto. Bastano più concentrazione, più attenzione e la freccia vola esattamente laddove il tiratore la vuole mandare.
Infatti, nella vita di tutti i giorni noi così viviamo i nostri errori, sia quelli di giudizio sia quelli d’azione che ci portano inevitabilmente a raggiungere i risultati diversi dalle nostre aspettative. Questa dimensione del peccato si manifesta sul piano relazionale dove le conseguenze dei nostri errori creano danni agli altri. Di solito si può sempre cambiare la condotta. I danni non saranno sempre pienamente riparabili il nostro agire tuttavia può migliorare; sbagliando s’impara. Siamo dunque di fronte a una visione puramente etica del peccato. Tale visione è necessaria anche in una prospettiva di fede, non è però sufficiente. Se noi volessimo accontentarci di essa il cristianesimo diventerebbe semplicemente un’altra scuola di filosofia morale non molto diversa da tutte le altre che la storia del pensiero umano ha conosciuto.
Nel vangelo secondo Giovanni 1,29 leggiamo questa esclamazione del Battista: Ecco l'Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo! Giovanni parla qui di peccato al singolare, per indicare la corruzione comune non soltanto a tutti gli esseri umani ma anche alle strutture di decadenza e di distruzione presenti nell’intero cosmo. Questa prospettiva ci dà l'idea del peso collettivo messo sull'Agnello da un lato e della cosmica efficacia del suo gran sacrificio. L’idea è resa assai chiara dalle parole che seguono: il peccato del mondo. In questa nozione non si tratta soltanto del mondo degli esseri umani ma dell’intero universo.
Ora ritorniamo però alla prima parte della citazione. Abbiamo qui una delle più belle definizioni di Dio: Dio è luce. Nello stesso scritto in 4,8 troviamo anche l’altra più famosa definizione di Dio: Dio è amore (agape). Luce e amore – queste sono le coordinate della nuova creazione inaugurata attraverso la morte e la risurrezione di Cristo, Agnello di Dio. Ma tali coordinate non sono concetti astratti o linee di una geometria spirituale. Si tratta delle forze potentissime e benefiche messe gratuitamente a nostra disposizione.
Per attingere da queste forze c’è però una condizione. Non si tratta però delle solite condizioni che poniamo nei nostri rapporti interpersonali: “se non fai questo o quello significa che non mi ami”. Dio, come leggiamo sempre in I Giovanni 4,10 ci ama a prescindere dal nostro amore verso di lui. Sperimentare una profonda comunione d’amore con Lui e un potente sentimento verso di Lui è stupendo ma non necessario per diventare l’oggetto del Suo amore. La condizione è di confessare il nostro peccato al singolare e di ammettere di commettere numerosi peccati declinati anche al plurale. Tutti questi peccati sono utili per riconoscere la nostra vera condizione esistenziale che non muterà fino alla fine di questo mondo. Riconoscendo tale condizione noi però sperimentiamo già ora un mondo nuovo in cui le tenebre sono scomparse, in cui la Luce dell’Amore regna sovrana. |