Mi è sempre piaciuto questo versetto, perché prende sul serio il fatto che è impossibile non adirarsi e che non è vero che “bravi cristiani” siano coloro che non si arrabbiano mai. Il problema non è arrabbiarsi. Il problema è cosa facciamo della nostra ira. Negarla non è mai salutare, poiché in tal modo si finisce per covarla a lungo giungendo magari ad esplosioni improvvise che possono nuocere tanto a chi è preda dell’ira quanto a chi ne diventa l’obiettivo.
L’autore della lettera agli Efesini distingue, con saggezza, tra l’ira (che non è di per se stessa un peccato) e le sue conseguenze (che invece possono davvero far male e, dunque, tradursi in peccato). L’invito sembra essere quello a non tenersi dentro la rabbia, a non negarla, a non covarla a lungo dentro di noi, ad ammetterla senza paura, cercando magari le forme e i modi per esprimerla costruttivamente, prima che il giorno finisca. Aiutare noi stessi e gli altri a comprendere le ragioni più profonde della propria ira e a parlarne è il primo passo verso la liberazione.
Al contrario l’ira negata, nascosta, repressa o alimentata nel silenzio, può diventare distruttiva non solo per gli altri, ma anche per la persona stessa che la prova. Talvolta la cosa migliore che possiamo fare per una persona arrabbiata è aiutarla a verbalizzare la propria ira, offrirle il nostro ascolto e accogliere il suo sfogo senza esprimere alcun giudizio. L’esperienza insegna che spesso basta già questo a far sì che la rabbia venga depotenziata dei suoi effetti deleteri. Perciò, se oggi o nei prossimi giorni ci imbatteremo in persone adirate, proviamo ad ascoltarle, donando loro un poco del nostro tempo. Se, invece, siamo noi ad essere adirati, allora, dopo aver pregato, cerchiamo una persona capace di ascoltare senza giudicare e apriamole il nostro cuore. Chissà che allora il sole non tramonti sopra la nostra calma ritrovata. |