Tutte le chiese cristiane in ogni tempo hanno creato meravigliose melodie natalizie classiche e popolari per esaltare i sentimenti dello stupore, della gioia e della riconoscenza per l’avvenimento rappresentato dalla nascita di un piccolo bambino in una stalla. Luca ha introdotto nel suo Vangelo la tradizione dei canti natalizi. Matteo invece non riporta dei canti, ma delle citazioni dell’Antico Testamento che, in qualche modo, hanno predetto e annunciato in forma poetica la nascita di Colui che salverà il suo popolo. Tra tutti i canti, citati da Matteo, ce ne è uno, raramente ricordato il giorno di Natale perché non è un inno di gioia ma un grido di dolore e disperazione: il grido di Rachele, rappresentante di tutte le madri private innanzi tempo dei loro figli innocenti. Matteo sembra volerci ricordare che, mentre nasce un bimbo nella gioia, migliaia di bimbi innocenti muoiono nella disperazione. Anche il piccolo innocente di Betlemme non sarà risparmiato. La sua morte, ancora causata dal potere politico e religioso, è semplicemente rinviata a una prossima scadenza.
I bambini continuano a morire, ma Erode non muore mai, si reincarna ogni volta ed è presente e attivo in una continua strage di innocenti. Nel mondo migliaia di bambini muoiono di gravi malattie che siamo incapaci di prevenire e di curare adeguatamente (pur avendo i mezzi e la cultura per farlo); muoiono di fame, di sete, di miseria e di stenti, il più delle volte vittime della cieca indifferenza di tanti piccoli erodi corrotti a cui non sappiamo (o non vogliamo) opporci. Gesù figlio di Rachele muore anche lui, vittima innocente, ma non come uno sconfitto. Il suono delle campane di Natale si unisce a quello delle campane di Pasqua per decretare la condanna di tutti gli erodi della storia e per affermare la vittoria dell’innocenza, martire della violenza umana. Come noi «morì e fu sepolto»: la sepoltura sottolinea l’irrevocabilità della morte; la sua resurrezione ha rappresentato invece un’affermazione di vittoria della vita, di tutte le vite spente nella violenza e nella sofferenza.
Diciamolo a Rachele, la resurrezione non vuol essere la solita patetica consolazione del «fatti coraggio» e neppure la felice conclusione di una storia a lieto fine, ma è il risultato di una vittoria che ha costato sofferenza e morte. Essa diventa così promessa di vita per tutti gli innocenti che ancora oggi soccombono per la violenza e per la miseria. Cantiamo a Natale l’inno della vittoria e, impegniamo, noi e i nostri figli, con tutte le nostre forze, la nostra fede, il nostro amore e la nostra speranza, in una azione di sostegno, di solidarietà e di protesta affinché Rachele non debba più piangere e i suoi figli possano vivere un’esistenza di pace, di serenità e di gioia, cantando insieme: «Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra tra gli uomini che Egli ama».
Tratto da Riforma del 23 dicembre 2005 |