Ora che la furiosa campagna elettorale che abbiamo vissuto è alle nostre spalle, possiamo osare qualche accostamento fra Bibbia e attualità senza suscitare immediatamente l’accusa di strumentalizzazione. Che viceversa è stata abbondantemente praticata, anche se non in riferimento alla Bibbia – cosa ben poco usuale nella cultura italiana – bensì alle dichiarazioni del papa e dei vescovi. In compenso, coloro che più cercano di accreditarsi come paladini dei «valori» cristiani lo fanno in genere in riferimento a temi come la sessualità, la famiglia, l’aborto, l’eutanasia, tacendo rigorosamente sulle affermazioni (poche, purtroppo, ma non assenti), anche della gerarchia cattolica, sull’economia, sulla solidarietà sociale, sull’accoglienza agli immigrati.
Così, per esempio, a nessuno è venuto in mente di domandarsi se sia più coerente con i «valori» cristiani l’affermazione che «l’egoismo del singolo si traduce in un beneficio per la società» (messaggio televisivo finale di Berlusconi) ovvero che «Nessuno può veramente star bene se non stanno bene anche tutti gli altri» (messaggio finale di Prodi). I primi convertiti dal messaggio dell’evangelo non avevano dubbi: udita la predicazione di Pietro «furono punti nel cuore» e la loro prima, spontanea risposta (nessuno glielo aveva chiesto) fu la decisione di attuare una comunione dei beni. Per loro, l’annuncio della Parola significava esattamente il contrario dell’egoismo individuale.
Certo, i commentatori ci spiegheranno che si trattò di un’esperienza limitata nel tempo e nello spazio, nel quadro della trepida attesa della parusia, ritenuta imminente. E sarebbe ingenuo pensare di trapiantare l’esperienza dei primi convertiti dal contesto agricolo-pastorale della Palestina del I secolo nelle moderne società industriali. Come è vero che, finora, le esperienze storiche destinate – attraverso il trasferimento dei mezzi di produzione dal singolo alla collettività – a creare società senza classi in cui ciascuno avrebbe ricevuto secondo i suoi bisogni (le stesse parole di Atti 2!) hanno pesantemente deluso le aspettative. Ma una cosa sono i diversi sistemi di produzione della ricchezza, un’altra i criteri della sua distribuzione.
Già il riformatore Calvino, di cui pure certa storiografia ha caricaturato il pensiero facendone un ideologo del capitalismo, non pensava affatto che la molla che deve spingere il singolo a lavorare, a produrre, a creare ricchezza fosse l’egoismo ma la vocazione a contribuire al bene della società. E soprattutto, che «ciò che ognuno possiede non l’ha per gioire lui solo, ma sia pronto a mettere in comune, secondo il bisogno» (citato da Lilia Corsani in Protestantesimo e capitalismo, Claudiana, 1983, pag. 85). Questo si è un «valore cristiano» fondamentale, che troppi odierni «difensori della fede» non sembrano aver incluso nel loro elenco.
Tratto da Riforma del 21 aprile 2006 |