Questo breve testo tratto dal libro degli Atti è particolarmente interessante, perché presenta i primi cristiani secondo il modo in cui erano visti da chi li perseguitava. Ancor di più: attesta esplicitamente quale fosse la maniera in cui essi venivano chiamati e, pertanto, identificati. L’espressione figura all’interno del secondo dei due versetti riportati e recita, letteralmente: uomini e donne della via. Ecco ciò che, in origine, contraddistingueva i discepoli e le discepole di Gesù: il fatto di essere donne e uomini in cammino, o meglio, del cammino: un cammino che seguiva le orme del loro maestro e Signore e che, per questo, li aveva condotti a essere perseguitati dalle autorità politiche e religiose del tempo. Una situazione scomoda e pericolosa, senza alcun dubbio, ma che al contempo faceva del discepolato una condizione di perenne itineranza, estranea a soluzioni di accomodamento e di staticità. Chi crede è in cammino, necessariamente: un cammino lungo il quale ciascuno è chiamato a ridefinire la propria fede, a rimetterla fecondamente in discussione attraverso l’esperienza vissuta e sofferta di un’itineranza incessante. Le donne e gli uomini della Bibbia che abbiano dato il loro assenso a mettersi concretamente sui sentieri di Dio sono eterni viandanti, destinati a errare nel duplice e inseparabile senso che quest’espressione, assai significativamente, custodisce.
Da quando le chiese, storicamente, sono passate da una relazione di opposizione ai poteri costituiti a un rapporto di connivenza con essi, l’itineranza, automaticamente, è divenuto un aspetto da arginare, un elemento dalle caratteristiche eversive e, quindi, potenzialmente sovversive. Un qualcosa a cui guardare con diffidenza, poiché impedisce a delle strutture di controllo sociale di esercitare indisturbate questa loro funzione. Le chiese per prime, dunque, hanno costituito degli strumenti di persecuzione più che di inveramento dell’evangelo, cercando, così come l’apostolo Paolo chiese di poter fare, di «ricondurre legati» coloro che ne propagavano l’annuncio mediante la sequela e, quindi, l’itineranza. Le realtà ecclesiastiche hanno così finito per maturare un’avversione connaturata al movimento, per cristallizzarsi in strutture tanto solide quanto vuote. Una fede intesa come eterna ricerca, incarnata in un cammino costante, rende le donne e gli uomini liberi di «errare» nei due sensi e permette loro di intraprendere sentieri nuovi lungo i quali Dio può venire loro incontro. E trasforma le comunità, che da questa fede traggono vita e senso, in luoghi di accoglienza e di dialogo, in spazi idonei ad affrontare quel senso di smarrimento che costituisce l’aspetto nevralgico di questa nostra società in cui esse vivono e agiscono.
Tratto da Riforma dell'8 giugno 2007 |