Non so se sia lecito chiamare «figli di Dio» i monaci buddhisti che manifestano contro la dittatura militare della Birmania. Tuttavia le poche, drammatiche immagini e le frammentarie notizie giunteci da quel lontano Paese sono sufficienti a darci un’idea di che cosa possa significare «essere operatori di pace». Un tempo, nella Roma imperiale si diceva: se vuoi la pace, prepara la guerra. È un principio sopravvissuto alla caduta dell’Impero romano e vigente ancora ai nostri giorni. La Guerra Fredda fra Patto atlantico e Patto di Varsavia ne è stato l’esempio paradigmatico. Anche il Partito socialista birmano si regge al potere dal 1962 grazie a questo principio: mantiene la pace e l’ordine pubblico ricorrendo al terrore e all’intimidazione di ogni suo potenziale avversario politico. Si pensi ad Aung San Suu Kyi, fondatrice della Lega nazionale birmana per la Democrazia e Premio Nobel per la pace, da 12 anni costretta agli arresti senza accuse e senza processo. Ma non è questa la pace di cui il Vangelo parla.
Le immagini dei monaci buddhisti che sfilano con la popolazione civile per le strade di Rangoon, d’altronde, ci suggeriscono che essere operatori di pace non significa neppure quietismo e rassegnazione, magari chiudendosi in casa in nome di un malinteso «amor di pace». Ma significa dire di no proprio alla pace, quando essa si riveli opposta alla giustizia. Significa rifiutare le offerte dei militari ai monasteri, quando esse servano a comprare il silenzio dei monaci. Significa sfidare la quiete e l’ordine imposti dal regime, anche quando offrano un vantaggio personale o corporativo, per costringerli a mostrare il loro vero volto. Significa essere disposti a subire la guerra, la repressione, la morte se necessario, pur di ribadire la propria contrarietà a una pace priva di giustizia.
Ciò che Gandhi, Martin Luther King e oggi i monaci birmani ci hanno insegnato con la nonviolenza è anzitutto questo: se ciò che vuoi è davvero la pace, preparati a subire anche la guerra. Ecco come il detto dell’antica Roma può essere reinterpretato in senso nonviolento. Essere operatori di pace significa reclamare anzitutto la giustizia, non la quiete pubblica. E questo suscita inevitabilmente reazioni, perché smaschera ciò che di pace ha solo il nome. Essere operatori di pace non significa essere banalmente «pacifici», «paciosi», esser sempre pronti a sedare gli animi e a «far pace». Significa piuttosto liberare la pace da tutto ciò che pace non è, sgombrando il campo dalle ipocrisie, dal sopruso e dalla sopraffazione. Significa insomma: fare spazio alla pace.
Questo insegnano oggi i monaci buddhisti birmani, anche a prezzo della loro vita, ai cristiani e ai pacifisti di tutto il mondo. Perciò, al di là di ogni correttezza diplomatica interreligiosa, ci piace salutare loro e tutto il popolo birmano con l’augurio di Paolo ai Tessalonicesi: «Il Signore della pace vi dia egli stesso la pace sempre e in ogni maniera» (II Tess. 3, 16).
Tratto da Riforma del 12 ottobre 2007 |