Salmi come questo ci mettono di fronte ai limiti dell’uomo e al suo incessante desiderio di conoscenza. Che cosa siamo rispetto alla storia, alle dimensioni, al futuro dell’universo visibile? La nostra ragione vacilla se messa a confronto con spazi, tempi, leggi che non ci appartengono eppure stanno davanti a noi. Allo stesso tempo, guardando noi stessi, leggiamo il progresso che il genere umano ha fatto, soprattutto nel campo delle conoscenze scientifiche. Ma che cosa è la scienza? Nel suo libro Il senso delle cose Richard Feynman dice che essa apre le porte del paradiso ma pure dell’inferno, e non abbiamo le istruzioni che ci dicano quale è la porta giusta. Butteremo la chiave? No di certo: l’avventura della ricerca scientifica ha il sapore emozionante e la forza del dubbio, dell’incertezza, della domanda a cui non si danno risposte ultime. È questo il suo elemento costitutivo ed essenziale. Essa infatti, se non vuole essere dogmatica, accetta i suoi limiti come una forza e non come una debolezza.
Ma così come la scienza, per la sua coerenza logica e metodologica, non può dire parole ultime, allo stesso modo dovremmo avere il coraggio di dire che la verità non appartiene alla sfera della religione. Possiamo forse affermare che essa possiede conoscenze atte a riempire i vuoti del sapere scientifico? Che la sua verità è più grande e la comprende in sé? È forse questo che Benedetto XVI voleva dire nell’intervento mai tenuto alla Sapienza?
In tutte le epoche l’umanità ha cercato di scoprire il significato della vita, per cercare di dare un senso al nostro esistere e al nostro agire e sapere cosa dire davanti al mistero dell’esistenza. Potevano, Adamo ed Eva, rinunciare alla possibilità di conoscere il bene e il male? No, quella è la condizione di noi esseri umani. Gettati nel mondo conoscibile, dotati di senso e coscienza, allontanati dall’albero della conoscenza, il cui frutto mostra la nostra nudità e il nostro limite. Ma lo stupore del salmista davanti all’immensità dei cieli non è solo dato dalla consapevolezza della finitudine umana, della sua creaturalità. È anche lo stupore della fede nel Dio che si prende cura dell’uomo. E la conoscenza biblica, che non vuole spiegare lo stato delle cose ma dire cosa significano per noi, ha a che fare con l’essere conosciuti, cioè amati, e da questo diventare capaci di farlo.
Allora, se anche nel pensare comune la religione è considerata più grande della scienza, e i suoi limiti superabili nell’atto irrazionale del credere, uno sforzo va fatto per separare e distinguere le due sfere. Solo che ciò è possibile quando non si danno risposte definitive. Anche davanti a Gesù che ci dice di guardarlo per vedere il Padre. Forse, analogamente al metodo scientifico, dovremmo liberarci dalla pretesa di aver conosciuto la verità in Cristo, e dire, invece, che l’abbiamo incontrata, intuita ma non compresa del tutto. E, lacerati dal dubbio, proseguire incessantemente e con emozione nella sua ricerca.
Tratto da Riforma dell'1 febbraio 2008 |