Il profeta parla alla città di Gerusalemme nel periodo più buio della sua storia. Quando tutto sembra perduto, ecco che si ode una voce: fatti coraggio, rialzati! Può questa parola antica parlare ancora alle nostre realtà? Che cosa hanno in comune le nostre ricche città con la povera Gerusalemme? Essa è più simile alla terra africana, che vede fuggire i propri figli assetati di speranza e lavoro, precari su imbarcazioni insicure, rinchiusi nei centri di detenzione temporanea, soggetti al caporalato, alla tratta e al lavoro nero. C’è una città, una vedova, nell’altro continente, che non riesce ad alzarsi. E tuttavia, se la miseria e lo sfruttamento mettono in ginocchio, anche l’opulenza ha le sue «pesantezze» e rischia di farci sprofondare in un mare di immondizia. Poi ci sono gli eventi politici contemporanei. La parola profetica «rialzati!», la scopriamo oggi tristemente abusata nella retorica esibita sui cartelloni elettorali.
Il testo biblico smaschera questa infelice sovrapposizione rivelando che per rimettere in piedi un paese devastato, o anche una semplice vita piegata dal dolore, bisogna fare un lungo cammino. Non basta uno slogan pubblicitario. Dobbiamo diffidare di chi promette ricette a buon mercato. Lo sa bene Israele che, nella sua lotta per distinguere i falsi dai veri profeti, riconosce menzogneri quelli che annunciano «pace, pace» quando pace non c’è. La vera pace richiede i tempi lunghi dell’elaborazione dei conflitti. Questo vale anche nella vita privata. La guarigione è un processo articolato.
L’ostacolo principale è la fretta: vorremmo trovare immediato benessere, scoprire quel farmaco che possa cancellare il male. La fretta non veicola solo un approccio consumistico verso la vita: vogliamo stare bene: adesso! Essa ci porta a non affrontare i problemi che, rimossi, sono come immondizia non smaltita nelle nostre vite. Le crisi, invece, sono spazi importanti, capaci di allargare i nostri confini per farci crescere. Le ferite possono diventare feritoie, luoghi che permettono di vedere oltre, spazi allargati per accogliere l’inedito che ci viene incontro. La fretta non permette alla ferita di guarire, anestetizza solo la parte dolente, nega il vissuto, ci priva del diritto al cordoglio, alla convalescenza. Chi si rialza troppo in fretta da una malattia sa che è destinato alle ricadute. Nel dolore sentiamo un’assenza, una mancanza che ci rivela ciò che davvero conta. Il desiderio di guarire, di colmare quel vuoto rappresenta il nostro sì alla vita. Ci fa tendere la mano perché qualcuno possa afferrarla. L’altro può aiutarci ad alzarci, ma non può sollevarci. Siamo noi stessi che dobbiamo rimetterci in piedi. Iniziamo a farlo proprio mentre riconosciamo di essere caduti e, diffidiamo degli slogan menzogneri.
Tratto da Riforma dell'11 aprile 2008 |