La vicenda di Eluana Englaro si è conclusa con la sentenza della Corte di Cassazione, dopo un’infinità di anni: le macchine possono essere staccate.
Sulla vita di questa donna si sono espressi tutti: competenti e demagoghi, politici e scienziati. Colpisce il contrasto tra prese di posizione amplificate dai mass media e dignitoso silenzio della sua famiglia. Un contrasto palpabile, quasi incredibile: siamo così abituati a vedere i protagonisti della cronaca sbattuti consapevolmente in prima pagina, che si è immediatamente sospettato che il silenzio della madre di Eluana nascondesse divergenze con il padre, dimenticando quello che proviamo su noi stessi: a chi non dà fastidio ridurre il dolore ai passanti-guardoni che ti chiedono di dire qualcosa e ti sbaciucchiano al funerale? A nessuno è venuto in mente che nella famiglia Englaro vi fosse una divisione di ruoli, normale tra persone che vivono assieme e si sostengono reciprocamente. Allo stesso modo, il fatto che il sig. Englaro (perché chiamarlo per nome, come se fossimo vecchi compagni di bevute e non usare la forma di rispetto che pur la nostra lingua conosce?) si rifiuti di dire dove, come e quando sua figlia concluderà il suo cammino terreno, dà la sensazione di vivere divisi tra due universi paralleli ma opposti: quello di chi sbatte in faccia al primo che capita le sue scelte, convinto che l’altro apprezzerà il gesto; chi invece sente che l’esistenza comprende delle parti che devono essere avvolte nel pudore, perché alcuni dolori posso non essere detti ai quattro venti.
Questa storia, con tutto il suo carico di paure condivise per la sorte dei nostri cari e di domande terribili, ricorda quella di Giobbe, altrettanto spaventosa: il dolore umano, insensato ma inevitabile, e la tentazione che hanno i religiosi (quelli a tempo pieno e quelli dell’ultimo momento) di riempire il buco con parole apparentemente meditate ma in sostanza vuote, utili solo a far scendere qualche lacrimuccia. E ci rammenta anche che secondo la Bibbia l’unico modo per trovare un improbabile bandolo della matassa della sofferenza non viene dalle risposte che si possono dare, di solito comodamente seduti alla propria scrivania, ma dal pudore che possiamo riconoscere negli altri e che dovremmo ritrovare anche in noi stessi. Il silenzio, che non è «non aver niente da dire», ma piuttosto rivendicare il diritto di non trovare le parole per dirlo.
Colpisce anche constatare che le Legge, laica, è capace di riconoscere la complessità dei sentimenti umani più di quanto non lo sia la religione. I magistrati hanno preso sul serio il dramma di una famiglia, i religiosi l’hanno ridotto a una barzelletta macabra. Forse questo ha a che fare con l’ira di Dio, che si concretizza nel fatto che per la maggioranza dei nostri connazionali la religione sia semplicemente superflua.
Tratto da Riforma del 21 novembre 2008 |