La discussione sinodale ha messo in evidenza le luci e le difficoltà del processo
«CHIESA INSIEME», CAMMINO IRREVERSIBILE
La scelta «meticcia» è stata fatta, non si può annunciare Cristo in un sistema costruito a compartimenti stagni. Certo occorre investire energie e fantasia in questo delicato settore
di Elisabetta Ribet
I colori, i modi diversi, i suoni e la vitalità diversa del culto «migrante» sono inebrianti, affascinanti, e fanno riflettere. Ci mettono e ci hanno messo in discussione. Difficile, difficilissimo non aver voglia di raccontare, di spiegare al Sinodo intero quanto importante sia il cambiamento portato non solo nelle liturgie dei nostri culti ma nel profondo del nostro modo di dire Dio, lì dove siamo, dove siamo sempre stati e dove ganaensi, ivoriani, filippini e tanti altri hanno portato e portano cose nuove, nuovi punti di vista.
La fase della semplice accoglienza, della sorpresa, dell’innamoramento, è in molti casi, arrivata alla conclusione. È vero, ormai in molte delle nostre comunità la presenza delle persone migranti non è più una novità. Ormai abbiamo visto, ci siamo lasciati affascinare, convertire, interpellare, ma ora è necessario fare un passo in più. Il dibattito ha utilizzato la metafora del passaggio dalla poesia alla prosa. Le esperienze vissute in questi ultimi mesi hanno messo in luce anche le contraddizioni, le cose meno liriche e più complicate della «scelta meticcia».
Perché la «scelta meticcia» è fatta. Non si torna indietro. Vogliamo, è stato detto, «rischiare lo scandalo di camminare insieme, combattendo la tentazione facile del l’apartheid»: la fede non può essere testimoniata, Gesù Cristo non può essere annunciato in un sistema a compartimenti stagni.
In questa scelta meticcia, i primissimi problemi da affrontare sono ancora gli stessi. Al Sinodo, se non altro, il merito di averli almeno esplicitati, una volta di più. Dobbiamo sostenere la campagna per l’apprendimento della lingua italiana, non per «colonizzare» ma per dare più equilibrio e poi bisogna affrontare seriamente la questione spinosa della condivisione del potere e delle responsabilità, discorso valido per tutta la Chiesa, al di là delle questioni linguistiche e culturali. Dobbiamo parlare di come si formino le persone nelle chiese, di come si possano e si debbano riconoscere i ministeri già riconosciuti nelle chiese di origine delle sorelle e dei fratelli migranti. Dobbiamo rafforzare, capire meglio, rendere salde le relazioni con le chiese di origine.
Il primo passo importante verso la concretizzazione della storia d’amore, seconda fase dopo l’innamoramento, è stato aver detto chiaramente che la scelta delle nostre chiese è e vuole essere una scelta «meticcia», certo più complicata e da studiare ma altrettanto sicuramente più vicina a quella che per noi è la testimonianza dei «nuovi cieli» e della «nuova terra». Il secondo passo è quello che pare scontato, ma che scontato non è: senza di «loro» non c’è «noi». Se vogliamo essere insieme, dobbiamo costruire insieme, ha detto Maria Bonafede durante la discussione. «Insieme» significa prendere tempo, non avere fretta di fare un’integrazione di facciata, significa investire ancora di più sulle nuove generazioni e su chi arriva dalle chiese del Sud con una formazione. Significa riorganizzare la formazione, dalla Facoltà di Teologia ai corsi per i predicatori e per i monitori. Significa fare memoria delle esperienze di metodisti e valdesi italiani sradicati e andati, per forza o per sognare, a lavorare in altri mondi, in altre culture, a pregare in altre chiese.
Alcune proposte sono state fatte: perché non pensare a équipes interculturali di animazione (cosa, peraltro, prevista nel progetto Mezzano-Parma e Nord-Est)? Perché non impostare una formazione di mediazione culturale da offrire alle persone migranti? Investiamo abbastanza tempo, decisioni, energie nella formazione, dal punto di vista del passaggio di contenuti (imparare il dialogo, gestire conflitti, lavorare in squadra su specifici progetti) e della trasmissione di competenze? E se poi la «controparte» decidesse che preferisce la scelta dei mondi paralleli, delle chiese parallele?
Ecco. Forse un pezzo grosso della questione è ancora lì. Gli interlocutori, le sorelle e i fratelli di cui parliamo in questi dibattiti non sono abbastanza presenti negli organi decisionali. «Essere chiesa insieme» dovrebbe, poco per volta, diventare il terreno su cui si lavora, non il tema di cui si parla. Vorremmo poter discutere, decidere con «loro». Non su di «loro». Altrimenti continueremo a parlare di una chiesa fatta, appunto, di «noi» e di «loro». Un paio di passi, nel cammino della «versione in prosa», sono stati fatti. Ben vengano.
Tratto da Riforma del 14 settembre 2007 |