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SINODO 2008

L'articolata riflessione collettiva sul rapporto tra la chiesa e la società italiana

OCCUPARCI MEGLIO DEL NOSTRO SPECIFICO

Dobbiamo migliorare, biblicamente-teologicamente, la nostra predicazione scendendo dai piedistalli e rivolgendoci a chi vive nell'illegalità, nella paura, a chi cerca il senso della vita

di Davide Rostan

aula sinodale (foto Riforma)Molto spazio è stato dedicato, nel Sinodo di quest'anno, al tema «Chiesa e società». Molti spunti sono venuti dal dibattito serale sullo spazio per il protestantesimo nella società italiana e dalla sessione del martedì mattina che ha ripreso l'atto 34 della Conferenza distrettuale del IV distretto. A fianco della riflessione da condurre sul tema della legalità, dell'immigrazione e dell'incontro con la diversità vorrei qui proporre una riflessione che prende spunto da alcuni interventi che più mi hanno colpito.

Gabriella Caramore nel suo intervento alla tavola rotonda ha, credo, mosso una critica e un invito al nostro essere protestanti oggi che riassumerei cosi: il protestantesimo può avere - e difatti ha già - un suo spazio nella cultura italiana nel momento in cui resta fedele a se stesso, all'annuncio della parola di grazia, alla sua capacità di convertirsi ogni giorno nuovamente al suo fondamento. La pastora Janique Perrin ha parlato di «predicare la speranza», il pastore Luca Anziani ha sottolineato come la nostra predicazione debba «parlare a chi ha paura, a chi si occupa solo di cose personali, a chi non si sente più rappresentato ma non ha più voglia di partecipare». Credo che il tratto comune di queste tre sottolineature stia proprio nel richiamo a concentrarsi sull'essenziale. L'annuncio della resurrezione a chi ha paura, a chi insegue modelli di vita irraggiungibili che provocano frustrazione e risentimento verso il più debole.

Annunciare la resurrezione vuol dire quindi essere capaci di collocarsi nel dibattito sulle scelte etiche e sulla nuova legge sull'immigrazione ma vuol dire, questo mi è sembrata anche la critica di Gabriella Caramore, essere capaci di dedicare più tempo, più energie a ciò che è il nostro specifico. La battaglia per i diritti civili, ci è stato detto, si può fare anche senza essere credenti, rivolgersi a chi ha paura annunciando una parola di grazia e comprendendo le ragioni di questa paura no. Si può e si deve sfruttare ogni occasione pubblica per far sentire la nostra voce sui temi della laicità, ma allo stesso tempo forse dovremmo cercare di essere più propositivi senza lasciarci fare l'agenda dei temi su cui discutere dal Papa o dalla notizie di cronaca. Lo spazio del protestantesimo passa, forse in maniera meno appariscente, meno visibile, più lenta, attraverso quella predicazione che il nostro fratello e la nostra sorella ci hanno ricordato nel dibattito sinodale. Portare la speranza, come diceva Alex Langer, è un mestiere difficile, è quello di ogni credente che con pazienza semina piccole gocce colorate in un mare infinito. A volte con sofferenza vede che questo suo lavoro non porta a nulla, a volte vorrebbe vedere dei risultati e cede alla via larga della ricerca del talk show.

Accanto ai successi delle firme dell'otto per mille, alla stima che molto mondo laico ha per la nostra chiesa e alle battaglie da continuare per la laicità nella scuola, per una nuova legge sull'immigrazione o per la difesa dei diritti della persona malata, credo che questo Sinodo abbia anche espresso, forse in maniera indiretta, il bisogno di un ritorno alla cura della predicazione, all'annuncio di una parola che ci rinnovi e che sia capace di rivolgersi anche fuori dalle nostre chiese. Una parola che abbia come interlocutore anche chi ha paura, anche chi identifica nello straniero il nemico da escludere, anche chi non riesce più a trovare un senso nella democrazia parlamentare. Situarsi nel mondo culturale italiano vuol dire anche essere capaci di parlare un linguaggio che non è il nostro, vuol dire scendere dal piedistallo e parlare a chi nell'illegalità ci vive e non vede alternative; vuol dire non modificare i nostri contenuti ma renderli fruibili. Vuol dire lasciarsi interrogare sul nostro modo di essere comunità, sul modello di socialità che proponiamo. Vuol dire essere capaci di annunciare la resurrezione in un mondo che valuta in base all'utilità ma che è alla ricerca di senso e di sacro.

Il dibattito sinodale non si è spinto fino all'abbozzare delle risposte o almeno delle linee guida sul come affrontare queste questioni. Credo però che le raccomandazioni e le critiche che al nostro mondo sono state mosse vadano raccolte per continuare a essere credibili ma soprattutto per continuare a essere fedeli alla parola del Signore.

Tratto da Riforma del 12 settembre 2008

 

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