Il discorso conclusivo del moderatore, pastore Gianni Genre, dopo la rielezione
IL NOSTRO BISOGNO DI CONSOLAZIONE
La fragilità della condizione umana trova una risposta nella parola di grazia di Dio che apre la via dell'impegno, della santificazione, della condivisione, dell'ascolto e dell'aiuto reciproco
Al termine di ogni Sinodo, ormai da alcuni anni, abbiamo dovuto salutare, con riconoscenza e affetto, uno o più membri Tavola che lasciavano questo servizio impegnativo. Quest'anno anche la CdE ha rilevato la singolarità, quasi l'anomalia come è stato detto, di avvicendamenti troppo frequenti, dopo periodi di presenza e di lavoro in Tavola inferiori ai sette anni canonici.
Credo sia giusto, e non solo legittimo, condurre anche questa riflessione "minore", ma non irrilevante. Ma non dobbiamo essere troppo preoccupati che questo accada; bisogna analizzare con cura i motivi che possono rendere più usuranti alcuni servizi relativi all'esercizio del governo nelle nostre chiese (e non mi riferisco soltanto alla Tavola), accogliendo però con gioia e riconoscenza le disponibilità anche parziali o a termine di chi si mette al servizio della chiesa. Ciò che deve invece preoccuparci davvero è il timore, quasi la paura, che molti membri delle nostre chiese provano davanti a un invito a svolgere un servizio nei Concistori, nei Consigli di chiesa, nei comitati (e ovviamente ancora di più nelle CSA o nelle commissioni "nazionali"). È anche questa la ragione che ci costringe, nel nostro piccolo mondo, a mettere sulle spalle dei "soliti noti" ogni sorta di incarico e di carico. Dovremo parlarne, dovremo riflettervi insieme e dovremo cercare di modificare un poco le cose.
Riconoscenza
Nel frattempo mi sia consentito esprimere una parola di viva riconoscenza a Giovanni Lombardo, la cui permanenza in Tavola è stata breve, ma progressivamente sempre più appassionata (ce lo ha detto, con grande autenticità, mercoledì sera). Le stesse parole di riconoscenza voglio rivolgere a Franco Siciliano per il suo lavoro particolarmente intenso. Tre anni soltanto, ma tre anni davvero a tempo pieno. Un "militante" evangelico, con un carattere a tratti anche spigoloso, che non si è mai tirato indietro rispetto a qualunque tipo di incarico. Una determinazione rara, che può farlo apparire burbero, ma che lascia affiorare il suo grande amore per la chiesa. Grazie. Una parola di augurio a Paolo Landi e a Eugenio Bernardini, che iniziano adesso questo percorso, con la preghiera al Signore di rinnovarci il miracolo della fraternità in un lavoro che si presenta spesso segnato da tensioni e da una complessità di problemi sempre più grande. La preghiera di riuscire a trovare lucidità e consenso quando si tratta di individuare una possibile soluzione. Di trovare, almeno talvolta, un'indicazione che ci riveli un frammento della volontà del Signore.
Un Sinodo faticoso
È stato un Sinodo faticoso, che si presentava difficile, difficilissimo, forse il più difficile degli ultimi decenni, anche più teso di quelli dedicati in gran parte al dibattito sull'otto per mille, o al futuro di Villa Olanda o del Collegio. Questa tensione, che è ancora presente nel tessuto delle nostre chiese delle Valli e di Torino (e anche nel tessuto civile di questo territorio) non ci ha impedito di ascoltarci reciprocamente, di parlarci con franchezza ma con rispetto, di iniziare a intravedere insieme quali altri percorsi potremo imboccare per continuare a dire, attraverso il linguaggio della diaconia, l'amore di Cristo per i minimi. Si è trattato e si tratterà di continuare a mantenerci anzitutto su un percorso di umiltà e di riconoscimento dei limiti. La banale constatazione di essere riusciti ad ascoltarci e a dialogare costituisce, se vista più da vicino, una prima considerazione, una prima indicazione che mi pare importante.
Le nostre chiese "luoghi politici"
Che cosa voglio dire? Che dobbiamo imparare a proporre gli spazi che le nostre chiese rappresentano e sanno offrire per ciò che sono: gli ultimi autentici "luoghi politici" delle nostre società, come li definisce un discepolo di Paul Ricoeur, il filosofo Olivier Abel. "Luoghi politici" nel senso di luoghi pubblici, della polis, dove il disaccordo è accettato, dove si sta insieme perché non ci si sceglie, ma si è scelti, dove è possibile, anzi necessario, vivere insieme pur essendo portatori di posizioni e di idee diverse o divergenti. Dove la comunione si sperimenta attraverso il confronto, a tratti forse anche duro, fra persone che non hanno e non cercano affinità fra di loro, ma sono consapevoli di avere ricevuto una vocazione comune, dallo stesso Signore, e di dover rendere, insieme, una testimonianza a quel Signore.
Abbiamo qui, nell'essere "luoghi politici" in questo senso, un'opportunità straordinaria da presentare ai nostri contemporanei, una chance che non dobbiamo neppure costruire. Perché ci è data, è un fatto costitutivo del nostro modo di essere chiesa. Infatti, non è accidentale il fatto che il protestantesimo abbia conosciuto e sia segnato da divisioni e da fratture. Questo è dovuto al carattere, alla natura profonda della nostra ecclesiologia, che ha contribuito e può continuare a contribuire in modo fondamentale a insegnare il pluralismo nelle nostre società. Questa è l'originalità o, meglio, una delle originalità del protestantesimo: la possibilità di dire insieme cose eventualmente diverse. Valorizzare la possibilità che viviamo nei nostri ambienti di creare, di sperimentare delle relazioni che mettono in evidenza la differenza, l'alterità. Differenze che dobbiamo continuare faticosamente a coniugare evitando la scorciatoia di chi vuole uniformare tutto e tutti.
Il confronto che non spaventa
È vero che né il confronto né la condivisione sono oggi di moda. Il confronto affatica e la condivisione spaventa; sono cose che molti vogliono assolutamente evitare, nella paura che la condivisione li renda più poveri, togliendo qualcosa di ciò che appartiene loro e che vogliono gelosamente custodire. A questo proposito, molti discorsi che udiamo fare quotidianamente, non soltanto da esponenti di forze politiche, ma da soggetti della società civile, sono oggi semplicemente agghiaccianti. Nonostante tutto questo, questa nostra peculiarità è una grande ricchezza, che dobbiamo fare conoscere, che dobbiamo rendere pubblica. I risultati verranno certamente.
Seconda indicazione: questa possibilità di costruire e di offrire agli altri gli spazi che le nostre chiese rappresentano come "luoghi politici", dove il disaccordo è possibile ed esercitato, è resa possibile, è nutrita, è accompagnata da una profonda dimensione spirituale. È questa dimensione della spiritualità che dobbiamo curare e condividere. Per troppo tempo, forse, abbiamo pensato che la spiritualità fosse qualcosa che ci allontanava dal mondo e dai suoi problemi. Sono invece convinto che la spiritualità protestante ci riconduca al mondo, alla sua miseria e al suo splendore. È nel tempo del Pietismo che si sviluppano enormemente le opere diaconali, di servizio. Ed è attraverso una profonda pietà personale e comunitaria che noi possiamo comprendere che l'Evangelo non ci indica una strada che consenta l'evasione, ma l'impegno nel e per il mondo.
In questo senso credo che la componente metodista delle nostre chiese debba aiutarci a riscoprire il senso di un termine ormai assolutamente obsoleto: quello della "santificazione". La consapevolezza che Cristo rivendica una presenza, un'autorità, una signoria su tutti i settori della nostra esistenza quotidiana, nessuno escluso: le nostre scelte, anche minime, di ogni giorno, i nostri orientamenti e la nostra riflessione politica, le questioni familiari e sentimentali, l'uso del nostro denaro e del nostro tempo. Non ci sono, di fronte all'esigenza di Cristo, spazi che possiamo ancora rivendicare come privati. Pietà personale (a partire dalla preghiera e dall'ascolto della Parola) come via che conduce a un rinnovamento comunitario. Anche qui, mi sembra che non dobbiamo scoprire o inventare nulla per rispondere alla domanda fortissima, per quanto confusa o ambigua, di spiritualità che ci viene rivolta da moltissimi nostri contemporanei. Dobbiamo semplicemente ridare valore a ciò che ci appartiene e ci caratterizza; un esercizio di spiritualità che insegna anzitutto la gratitudine, la capacità di ricevere ciò che la vita offre come dono gratuito e la gioia, dimensione che affiora troppo poco dalle nostre vite e dalla vita delle nostre chiese e opere.
Terza indicazione: la mia impressione è che la solitudine degli individui che incrociamo ogni giorno, il loro disagio, la loro (e nostra) sofferenza, sia maggiore di quanto non sia mai stata in passato. E la mia impressione, il mio timore è di non prendere in sufficiente considerazione coloro che, sovente, chiedono soltanto un po' di ascolto, di attenzione. Le chiese "libere" o pentecostali attribuiscono molta, forse troppa, attenzione all'individuo. Ma è proprio per questo che ognuno si sente così "persona", si sente "riconosciuto" e può ridiventare disposto ad accogliere una domanda, un invito, una speranza per la quale non credeva ci fosse più alcuna possibilità. Penso anche alle tante persone "marginali" delle nostre chiese, quelle persone che le comunità conoscono soltanto attraverso qualche atto liturgico che scandisce la loro vita.
Noi abbiamo sempre paura che vi sia ambiguità nelle loro richieste, quando si tratta di far battezzare un bambino o di voler il funerale in chiesa per il nonno che muore. Forse, effettivamente, vi è ambiguità in molte situazioni. Ma non possiamo giudicare e credo che dobbiamo cogliere al meglio quei tentativi un po' goffi o che ci appaiono superficiali per rispondere comunque alla loro "esigenza di appartenenza", alla loro domanda di senso e di speranza. Io sono lieto di vivere in una chiesa "multitudinista" (anche se i numeri sono a volte molto piccoli); sto bene in compagnia di chi si sente più "vulnerabile"; in una chiesa dove ogni giorno si ricerchi un modo diverso e sempre parziale di confessare la fede. Riconosco, insomma, se dovessi riassumere ciò che avverto in una parola, un grande, smisurato "bisogno di consolazione". Uso questa espressione, "il nostro bisogno di consolazione", prendendola in prestito dal titolo di un breve libretto, un monologo di Stig Dagerman, scrittore svedese della metà del secolo scorso (morto suicida) che lancia un grido di aiuto, a nome anche dei suoi contemporanei, perché non riesce a trovare risposta alcuna all'aspirazione umana alla felicità, al senso della vita, al desiderio di esercitare un diritto pieno di cittadinanza senza sentirsi invece un "intruso" in questa società.
Rispondere al nostro bisogno di consolazione, saper dire che vi è una parola di approvazione sulla nostra e sull'altrui vita (perché gli altri ci rassomigliano) e che questa parola di approvazione non può essere cancellata perché è incisa sulla croce di Cristo. Si tratta semplicemente (ma può essere assai lungo e faticoso questo percorso) di diventare consapevoli di questa approvazione. E anche in questo caso, chi se non noi protestanti, che abbiamo al centro della nostra teologia la grazia, può iniziare a rispondere a questa domanda di consolazione, sapendo che la parola di Dio può penetrare in modo sottile nel dolore o nell'indifferenza o nel disorientamento che avvertiamo in chi ci circonda, passando a volte sotto i selciati della nostra anima? Chi, se non noi, se non le nostre chiese, per quanto fragili siano?
La domanda di Dio a Elia
Questi ultimi mesi di vita della nostra chiesa hanno trovato un loro sviluppo sotto il segno della domanda di Dio a Elia: "Che cosa ci fai qui?". L'intera vicenda, tragica sotto molti aspetti, del grande profeta, ci dice che la chiave che rende possibile la nostra esistenza è la fiducia. Vivere nella fiducia è l'unico modo possibile per vivere. Dopo tutte le battaglie, la solitudine, l'infinita stanchezza che proviamo a volte, dobbiamo ricordarci che è Dio a nutrirci: al torrente Kerit, nella casa della vedova di Sarepta, nella fuga da Izebel verso il monte Horeb, dove incontreremo Dio. E Dio (che Elia cerca e rivendica come a volte lo rivendichiamo anche noi) risponde sempre attraverso degli intermediari: i corvi del torrente Kerit, la vedova poverissima di Sarepta, gli angeli che gli indicano la focaccia calda e l'acqua che gli daranno nutrimento. Sono queste "altre" persone a indicarci e a consentirci di riprendere la strada della fiducia, a farci riscoprire o a farci continuare il cammino della nostra vocazione. E possiamo essere certi che questi intermediari che ricostruiscono in noi la fiducia, Dio non ce li farà mancare. È sufficiente riconoscerli. È sufficiente riconoscere Cristo nel volto di chi ci viene incontro.
Due piccole citazioni, che mi sono molto care, per concludere. La prima è tratta da un breve, brevissimo documento, una sorta di catechismo manoscritto del 17 luglio 1726, ritrovato in una casa ugonotta delle Cévennes. Siamo ancora nel pieno delle persecuzioni iniziate dopo la revoca dell'editto di Nantes. La chiesa riformata vive l'esperienza del "Deserto", della clandestinità, del martirio dei suoi "galeriani per la fede" e delle sue donne che marciscono nella torre di Costanza. Qualcuno sostiene che questo riassunto essenziale del catechismo evangelico sia stato dettato da Pierre Durand, fratello di Marie, pastore che sarebbe stato presto giustiziato per la libertà di religione e di coscienza che l'Evangelo rivendica. Questo breve testo pone sostanzialmente una sola domanda. "Che cosa bisogna sapere, che cosa ci insegna la religione cristiana? Tre cose principalmente: Ciò che siamo secondo la nostra natura; Ciò che Dio ci fa essere per mezzo della sua grazia; Ciò che gli dobbiamo rendere per tutti i suoi benefici". Credo che dare sostanza a queste risposte, nella loro semplicità, sia ancora sufficiente a orientare un'esistenza umana.
E concludo, invece, con un augurio "laico", con una parola del tutto non religiosa, di augurio a tutte e tutti voi. Una parola di uno dei capostipiti della "canzone d'autore", Jacques Brel, aggredito e ucciso prematuramente da un cancro. Una parola che ognuno e ognuna di noi e ogni nostro contemporaneo possono accogliere senza riserve: "Vi auguro dei sogni/ in numero infinito/ e il desiderio furibondo/ di realizzarne qualcuno./ Vi auguro di amare/ ciò che bisogna amare/ e di saper dimenticare ciò che bisogna dimenticare./ Vi auguro delle passioni,/ vi auguro dei silenzi,/ vi auguro dei canti di uccello al risveglio/ e dei sorrisi di bambini./ Vi auguro di resistere/ a tutto ciò che vuole farci affondare, all'indifferenza,/ alle virtù negative del nostro tempo./ Vi auguro soprattutto di essere voi stessi". |