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SINODO 2004

La riflessione del moderatore all’inizio del suo ultimo anno di mandato

A CIO' CHE E' STATO E A CIO' CHE VERRA'

Ricollocarci come chiese nell’orizzonte più ampio della cristianità mondiale in tumultuoso movimento; in Italia, dopo secoli di testimonianza, siamo ancora degli sconosciuti

la Tavola Valdese (foto Riforma)Care sorelle e cari fratelli,
al termine di questo anno di lavoro e di questo Sinodo, la prima impressione è quella di una maggiore attenzione, di una maggiore delicatezza con la quale abbiamo cercato di affrontare i diversi argomenti sul tappeto e che abbiamo cercato di adottare come atteggiamento nel confrontarci gli uni con le altre. E' come se fosse maturato un maggiore rispetto nel gestire le nostre asimmetrie e le nostre reciprocità, come se fosse cresciuta la consapevolezza di vivere un'avventura ed una scommessa comune, nella quale siamo chiamati ad accompagnarci reciprocamente. Un accresciuto desiderio di affermare il carattere prezioso dell'essere insieme. Insieme fra di noi, a volte malgrado noi, e insieme al cospetto di Dio. Sarà importante custodire questa sensazione per contagiare anche il tessuto delle nostre comunità.
In secondo luogo – questa non è una novità – ho colto un grande sforzo nel cercare di aprire i nostri orizzonti. In un momento di crisi (come molti giornali hanno voluto definire quello che stiamo attraversando) la tentazione del ripiegamento è estremamente forte. Abbiamo sì compreso la necessità di dovere ripartire dalle nostre malandate e splendide comunità e dalle nostre piccole iniziative diaconali e culturali, mai garantite, sempre precarie, ma vogliamo collocare la nostra testimonianza in un orizzonte più grande.

E' solo l'inizio di un lungo percorso che parte dal riconoscere che non siamo al centro di tutto. Anzi che siamo troppo autocentrati, in Italia e in Europa, anche rispetto al nostro modo di pensare la fede.
Ho letto un bel saggio, negli scorsi giorni, di uno storico delle religioni americano, Philip Jenkins, sulla cristianità nel XXI secolo. E' salutare che qualcuno ci ricordi che da molto tempo il cristianesimo non è più (e forse non è mai stato) eurocentrico. I centri vitali e propulsivi del cristianesimo sono oggi le città come Seoul, Nairobi, Lagos, Rio de Janeiro.
I dati statistici e le proiezioni ci dicono che il cristianesimo sarà ancora, nel 2050, la religione più numerosa sul pianeta. Certo, fra mille ambiguità e mille tensioni e dopo molti scontri che sono da tempo iniziati, ma la diffusione della parola di Cristo manterrà ritmi elevatissimi. E sono – e saranno – sempre di più le masse miserevoli frutto di un inurbamento forzato ad essere raggiunte dalla parola liberante, piena di senso di riscatto, di Cristo. La promessa delle beatitudini sarà creduta, accolta, vissuta dai poveri” della terra. Un miliardo di loro – fra meno di cinquant'anni – saranno evangelici pentecostali e la “nuova riforma” prevista da Harvey Cox nel suo libro “Fire from Heaven” (Fuoco dal cielo) sarà fatto compiuto; anzi proseguirà ancora.

Certo, tutto questo ci disorienta e forse ci spaventa un poco. In alcuni casi non condividiamo lo stile e neppure parte del contenuto di una evangelizzazione spregiudicata che ci appare carica, qua e là, di ambiguità e di zone d'ombra. Il discorso sarebbe lunghissimo e bisognerebbe approfondire, partendo dalla diffidenza che abbiamo nei confronti del fondamentalismo teologico e biblico e dal colore sostanzialmente conservatore di chi guida questi movimenti di risveglio cristiano.
Ma non possiamo ignorare tutto ciò, non possiamo ignorare che un numero infinito di donne che abitano le immense bidonville di queste metropoli orrende ha trovato voce in queste chiese di diseredati e moltissimi uomini, convertendosi a Cristo, sono usciti dall'alcolismo, dalla droga e dalla criminalità. Si sono semplicemente “convertiti”.
Sappiamo che le espressioni di questa fede cristiana cresciuta molto in fretta sono alla radice di possibili scontri politici, etnici, civili, molti dei quali sono già in corso. Ma oggi c'è chi vede già i segni di una possibile ricristianizzazione dell'Europa ad opera delle “nuove” popolazioni cristiane (o delle popolazioni del “nuovo cristianesimo”).
Ripeto, il fenomeno è talmente complesso ed articolato, talmente difficile da interpretare nelle sue mille sfaccettature e motivazioni da dover essere maneggiato con estrema prudenza. Ma noi, oggi, ci dobbiamo collocare in questo quadro mondiale, così diverso da quello che abbiamo sempre conosciuto ed immaginato. Un quadro che si modifica ad una velocità impressionante.

Terzo elemento da tenere presente volendo guardare al futuro con un po' di legittima fiducia.
L'indagine Eurisko su “Italiani e Protestantesimo” ci dice che non siamo conosciuti in Italia. Il 41% del campione intervistato ha soltanto sentito parlar di noi, dei valdesi e dei metodisti. Ma solo il 3% ci conosce (e ci riconosce come persone oneste, serie, coerenti, impegnate nel sociale).
A fronte di questo c'è un enorme richiesta di informazioni, una vera e propria sete di saperne di più, molto più di quanto i nostri media siano oggi disposti ad offrire ai nostri contemporanei. Dobbiamo – in tutte le nostre chiese – chiederci anzitutto come ovviare ad una mancanza assoluta di informazione sul pluralismo religioso.
Possiamo rispondere in modi diversi, a seconda del contesto nel quale ci verremo a trovare, ma alla base di qualsiasi iniziativa dobbiamo rimettere la necessaria confessione pubblica della fede.
Vi è un pudore nel nostro parlare di Dio, questo ci caratterizza, ma questo pudore, questa sobrietà non devono paralizzarci.
Dire apertamente, senza vergogna, il senso della fede che ci abita, di una dimensione spirituale che cerchiamo faticosamente di recuperare.
Perchè abbiamo così grandi difficoltà a fare una sorta di “outing” della nostra fede, a parlarne, confessandola, pubblicamente? Tante risposte sono possibili, ma io forse ho scoperto la “mia” (temo la “nostra”). Ho scoperto l'aspetto principale del mio impedimento.
Questo impedimento – parlo di me – costituisce anche il maggiore rammarico di questi anni.
In questi anni mi sono reso conto di non essere stato sufficientemente abitato dalla gioia. Purtroppo, forse, questa è una malattia comune nelle nostre chiese. Non abbiamo saputo – o non abbiamo osato – sognare abbastanza in questi anni. Io stesso ho parlato, anzi, in alcune occasioni, dei nostri sogni interdetti, di un divieto a sognare. Questo è molto grave, è qualcosa che ha condizionato – in molti momenti – il mio umore, forse persino il mio carattere ed ha soffocato, ha tolto ossigeno alla mia fede. Il contrario della fede non è la confessione della nostra incredulità, del nostro a-teismo; è la paura di chi non sa rendere conto della gioia che dovrebbe abitarlo. E' la gioia il segno della presenza della fede cristiana. E la gioia è contagiosa: se c'è contagi gli altri, se non c'è non contagi nessuno.
Senza gioia, insomma, non c'è fede cristiana.

Ho anche riletto quest'estate alcune pagine di Friedrich Nietzsche.
Nietzsche – è vero – maledice il cristianesimo, ma non Cristo, di cui parla nei suoi libri con parole piene di affetto, di rispetto, quasi di nostalgia. Quando presenta Gesù ne parla come del “lieto messaggero”, che morì come visse, come aveva insegnato, che ci lascia in eredità – secondo lui – una cosa sola, la “pratica della vita”, la capacità di offrire e e di vivere – qui ed ora – la beatitudine che annunzia.
In mezzo alle accuse terribili che Nietzsche proferisce nei confronti di chi usurpa il nome di Cristo, della “morale del risentimento” che abita i cristiani, Nietzsche fa un piccolo, terribile rilievo nei confronti di chi si dice discepolo di Cristo. Dice di coloro che si definiscono cristiani che “non sembrano redenti”. Non sembriamo afferrati dall'annunzio della nostra redenzione, della nostra salvezza.
Non si vede, non traspare a sufficienza, non affiora dalla mia vita quotidiana la gioia di chi sa che la propria vita ha ricevuto un senso e che la morte non potrà separarci dall'amore di Cristo, ma vi è un avvenire.
Due ultime parole, brevi, per concludere questo mio ultimo saluto al sinodo come Moderatore.
La prima è una parola di gratitudine a tutte e tutti voi che costituite questa piccola chiesa italiana che è parte della grande chiesa di Gesù Cristo nel mondo. Profonda gratitudine a Dio perchè questa chiesa, che amo e che amiamo, esiste ancora. L'esistenza di una chiesa non è affatto scontata. E' un dono che ci viene fatto, una realtà che ci viene donata e in cui siamo inseriti per grazia. La vorremmo sovente diversa, questa chiesa, la vorremmo – come diceva André Dumas – attraente, militante, coinvolgente. Vorremmo che fosse e che ci offrisse tutto ciò che – a nostro avviso – le manca. Non ci rendiamo conto che, invece, anche gli altri nella chiesa vorrebbero che noi fossimo diversi da come siamo. Credo di avere almeno cercato, con forza, di apprezzare tutto ciò che questa chiesa già è e già ci offre. Anche le sue (come le mie) ambiguità, anche la sua debolezza che a volte ce la fa apparire come una candela ormai consumata.

Questa chiesa, malandata e splendida, esiste e tante, tante volte, la sua stessa esistenza – il fatto che la grazia di Dio (e solo quella) l'abbia mantenuta in vita fino ad oggi mi ha commosso e mi commuove.
Spero di mantenere e spero che ognuno di noi mantenga – questa è una preghiera quotidianamente avvertita anche se non sempre espressa – la consapevolezza che questa è l'unica chiesa reale e, dunque, l'unica chiesa possibile. Quella formata da te e da me, da ognuno di noi e da tutti noi insieme. E che è, malgrado noi, corpo di Cristo. Parte della chiesa cattolica che noi crediamo.
Oltre a questa consapevolezza di fondo, che va al di là delle difficoltà e delle incomprensioni possibili, ho avvertito solidarietà reale da parte di molti e di molte. Anche e proprio nei momenti in cui ci si sente più soli e in cui si prendono le decisioni più impopolari, quelle che non si vorrebbero mai dover prendere (e non c'è bisogno che faccia degli esempi). Nel nostro modo sobrio, pudico, di comunicarci sentimenti o affetto, ho colto da parte di molti un senso profondo di condivisione.
Nonostante affiori – qua e là – un certo pregiudizio antistituzionale, che spero venga lasciato sempre di più cadere, ho avvertito molto più di quanto avrei potuto mai immaginare, sostegno, vicinanza, comprensione. Semplicemente grazie, sorelle e fratelli.

L' ultima parola è una parola di augurio, forse di preghiera. Per te e per me, per ognuno di noi, fratello e sorella, vorrei – e credo che tu vorresti con me – potere sussurrare, al termine di qualunque servizio che siamo chiamati a svolgere nella chiesa o fuori di essa, una piccola, brevissima, ma densa confessione di fede.
Quest'ultima, riassuntiva parola di gratitudine e di fiducia vorrei anche poterla pronunziare quando inizierà l'ultima giornata, l'ultima pagina del mio servizio terreno, del mio “mestiere di vivere”.
Non so se mi sarà possibile, se mi sarà dato. Neppure tu lo sai. Ma per te e per me è bello potere pronunziare questa parola oggi, guardando a ciò che abbiamo vissuto ieri e a ciò che speriamo di potere ancora vivere domani. E' una parola di Dag Hammarskjöld che porto da tempo con me, che riporto da un anno all'altro nella mia agenda.
In uno degli ultimi giorni della sua vita Hammarskjöld ha scritto nel suo diario: Al passato, a ciò che è stato, grazie. All'avvenire, a ciò che verrà, sì”. Non c'è davvero null'altro da aggiungere. Grazie.

 
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