Chiesa evangelica valdese - home page
sinodo dove trovarci otto per mille
Stampa questa paginaStampa questa pagina
SINODO 2004

Ampio dibattito sul tempo di crisi che attraversano le nostre chiese in Italia

SIAMO DI MENO PERCHE' "SIAMO MENO"

Stimolanti le relazioni della Tavola e della Commissione d’esame che hanno suscitato un’intensa riflessione che ha permesso di vedere con speranza oltre la realtà della nostra crisi

di Laura Ronchi De Michelis

interno del tempioLa relazione della Tavola presentata al Sinodo di quest’anno si apriva con un «Preambolo»: cinque pagine di estremo interesse in cui la Tavola proponeva di «fermarsi a fare il punto» sulla vita delle nostra chiese, cogliendo la consapevolezza fortemente condivisa che fosse necessario un cambiamento di rotta, un ripensamento collettivo sulla nostra testimonianza. Senza timore delle parole il preambolo parlava direttamente di «crisi» della chiesa e individuava quattro ambiti significativi: crisi del ruolo e dell’impegno dei laici; crisi del ruolo pastorale, crisi dei centri di aggregazione e di formazione, crisi del rapporto tra predicazione e diaconia. Analoga sollecitazione a riconsiderare la missione della chiesa, e in particolare del nostro essere chiesa qui e ora, giungeva pure dalla Relazione del Comitato permanente Opcemi. Da parte sua la Commissione d’esame forniva un ulteriore stimolo alla riflessione, assumendo in toto l’analisi della Tavola e della Cp-Opcemi e sviluppandola, anche sulla base di ordini del giorno formulati da alcuni distretti.
Il Sinodo ha fatto proprio l’invito e si è lanciato in una discussione appassionata, partecipata, ricchissima che ha occupato quasi per intero la prima giornata dei lavori, evidenziando da un lato una confortante fraterna unità di intenti, e dall’altro quanto il tema sia sentito da tutta la chiesa. Dalle decine di interventi è emerso il quadro di una chiesa sanamente preoccupata, ma viva e convinta che si debba procedere con molta lucidità a una analisi attenta dei problemi sollevati senza eluderne nessuno. Il dibattito, che si è riallacciato, in ideale prosecuzione, alla riflessione dello scorso anno sulla vita della chiesa, ha fatto emergere una serie di punti su cui concentrare attenzione e sforzi.

Innanzitutto la natura della crisi: evitando di trasformare la presa d’atto in un peso deprimente o in un facile pretesto di autocommiserazione, il Sinodo ha invitato a individuarne i legami con la crisi della società in cui viviamo e più in generale dei valori del mondo occidentale a cui spesso la chiesa si è pigramente adeguata. La «crisi» può allora offrirci una straordinaria opportunità per ripensare passato e futuro avendo come punto di riferimento Gesù Cristo; può rappresentare, secondo le parole di Luca Anziani, una «benedizione». Da essa dobbiamo trarre uno stimolo ulteriore a occuparci di più del mondo che ci circonda, a formulare un progetto comune di testimonianza per il nostro paese, a sviluppare la predicazione della speranza.
Il realismo, il fatto che non esitiamo a dirci le cose come stanno è uno degli aspetti positivi della crisi, aggiungeva Giuseppe Platone, che al concetto di crisi preferiva quello di «cambiamento»; il nostro pessimismo, la nostra infelicità, dipendono in larga misura da quelli del mondo che ci circonda, a cui tendiamo ad assimilarci dimenticando la speranza e la gioia della fede in Gesù Cristo. Tutte le comunità locali devono perciò sentirsi impegnate in un’opera di approfondimento e di riflessione sulla propria esperienza degli ultimi decenni.
In secondo luogo la «crisi» numerica (19.728, l’attuale numero dei membri di chiesa, è divenuto il leit-motiv di alcuni interventi, concretizzandosi l’ultimo giorno nel cartello appeso al collo di un vivace deputato napoletano), che invita a guardare dentro le nostre chiese, alla nostra inadeguatezza e incapacità di capire e rispondere ai bisogni e agli interrogativi dei singoli, non solo della società. Dietro alle difficoltà oggettive, osservava Ermanno Genre, sembra esserci un difetto di recezione del rapporto chiesa-mondo; questo ci impone di riprendere i contatti con la vita e la realtà di tutti i giorni, di reinventare luoghi di predicazione, di aggregazione, di testimonianza.

In questo senso Lino Pigoni parlava nel suo intervento di «inculturazione» delle nostre chiese: le comunità dovrebbero abituarsi a essere persone che condividono e che si forzano di leggere, da evangelici, la società in cui vivono, che non la lasciano fuori dalle chiese ma cercano invece le modalità migliori per calare la propria fede nella quotidiana comunicazione con gli altri; ed Erik Noffke non temeva di parlare esplicitamente di evangelizzazione e proselitismo, termini che appaiono a tanti desueti, dell’utilità di porsi il fine di riempire le nostre chiese. Prima, però, è necessario avere ben chiaro in che direzione muoversi, che cosa possiamo, e vogliamo, offrire al mondo, quale confessione di fede vogliamo trasmettergli; la risposta, emergeva da un gran numero di interventi, può venire solo dopo che noi, a nostra volta, ci siamo interrogati sulla nostra vocazione.
Il calo numerico veniva letto da Paolo Ricca proprio in questa luce. Siamo di meno, ha detto, perché «siamo meno», perché abbiamo perso peso spirituale; dobbiamo porci per un po’ in silenzio davanti a Dio, darci il tempo necessario a recuperare il nostro rapporto con Lui. Le chiese in crisi, notava Claudio Pasquet, sono le chiese che hanno relativizzato la presenza di Dio nella chiesa, la forza dello Spirito e la parola di Gesù Cristo; parliamo molto, aggiungeva Bruno Gabrielli, di impegno, del nostro fare, e poco della grazia di Gesù Cristo, del suo fare.

Porsi in silenzio davanti a Dio, ha detto Paolo Ribet accennando anche a una crisi della teologia, significa ascoltare Dio che parla, mettere da parte il nostro orgoglio e vivere la nostra vocazione in comunitaria unità di intenti; e Cristina Arcidiacono ha suggerito di uscire dal pensiero dell’urgenza e assumere i tempi della Grazia, di privilegiare i tempi lunghi di Dio rispetto ai nostri tempi brevi. Il tempo del silenzio, della tensione spirituale nell’ascolto della Parola non deve, però, essere un lungo tempo vuoto; deve essere, esortava Maria Bonafede, il tempo della predicazione e dell’annuncio dell’Evangelo. La consapevolezza della crisi non implica che si accantonino cose fondamentali come la predicazione: i pastori devono ricordarsi di essere teologi e le comunità locali devono invertire la diffusa tendenza alla «clericalizzazione», alla delega di tutto al pastore e riscoprire la funzione dei laici, la condivisione dei compiti, l’assunzione di responsabilità in nome della Parola. Un’esortazione a quella che ha definito «reciproca cura d’anime» è venuta anche da Bruno Rostagno, che ha ricordato che non è Dio a essere assente ma noi, e che l’ascolto reciproco parte dall’ascolto di Dio.

Su questa linea l’intervento di Tavo Burat, deputato di Biella, che ha richiamato con vigoria i credenti a non rinunciare a ciò che ci caratterizza come riformati, a non scambiare il silenzio dell’ascolto di Dio con il silenzio di fronte alle infedeltà e alle ingiustizie di una dilagante controriforma italiana che rischia di schiacciare non tanto noi quanto la parola di Dio. L’ampio dibattito non si è concluso con proposte precise, non ha detto che cosa dobbiamo fare, non ha fornito risposte risolutive. Ha invece messo in luce con forza che tali risposte possono venire solo da un «risveglio» della nostra fede, da un interrogarci sulla nostra vocazione e sulla nostra fedeltà alla Parola, dalla capacità di ricordare quanto di imprescindibile c’è alla base del nostro essere cristiani evangelici: «Sola fide, sola gratia, solus Christus, sola Scriptura».

(tratto da Riforma, del 10 settembre 2004)

 
© 2009 Chiesa Evangelica Valdese