Il discorso di Maria Bonafede dopo la sua rielezione a moderatore della Tavola valdese
DOVE VUOI ANDARE PICCOLA CHIESA?
La parola crisi cede il suo posto a un’altra parola:speranza, non solo legata a realtà attese, ma a realtà concrete che raccontano di nuove adesioni e di nuovi tentativi di testimonianza
Signor Presidente, cari fratelli, care sorelle in Cristo, non credo che si tratti soltanto di una mia impressione il fatto che, in diversi momenti di questo Sinodo, si facesse largo in mezzo a noi la parola «speranza». Piano piano, senza dare troppo nell’occhio, si è fatta spazio; in modo discreto, senza mettere in imbarazzo la collega «crisi», che ha avuto e ha, in questi anni, uno spazio più corposo. Speranza come consapevolezza che ciò che si sperimenta, ciò che si vede, ciò che si soffre, non è tutta la verità. Per cui è vero che condividiamo con tutto il cristianesimo storico occidentale un lento calo numerico, ma è vero anche che ci sono delle belle adesioni alle nostre chiese e l’ingresso di persone che cercano e trovano Dio nell’ambito delle nostre chiese, e un tessuto di relazioni comunitarie in cui viverlo.
Ed è vero che in questi anni registriamo l’incontro e la ricchezza della presenza e della fede di centinaia di credenti che vengono dall’Africa, dall’Asia e dall’Europa dell’est e che, in mezzo a molte contraddizioni, ci si è imposta una riflessione che «allarga la nostra tenda» (Isaia 54, 2), che ci costringe a ragionare con ragioni nuove, altre, con le ragioni e le speranze degli altri, che sono speranze di vita e speranze di cittadinanza. E noi le accogliamo queste persone, accogliamo le loro speranze e cominciamo anche a voler discutere con loro di fede, di teologia e delle conseguenze della fede nelle scelte di vita. È un dialogo ancora timido, ma comincia ad avere una consistenza e può essere importante anche come superamento di quella sottile forma di razzismo che è il paternalismo.
Ed è vero che abbiamo investito molto, e qualcuno si è chiesto se non fosse troppo, nel sostegno alla cultura, ma è vero anche che i nostri musei, i nostri archivi, i luoghi storici e la memoria non sono vissuti da nessuno di coloro che ci lavora e vi si dedica e da tutti noi che ne usufruiamo e che godiamo del risultato di tanto lavoro, con il gusto della conservazione autocelebrativa, ma con la pazienza e la cura che danno spessore alla speranza, corpo e memoria alla testimonianza, radici alle aperture verso le sfide che l’essere chiesa oggi pone. È vero che avere un’editrice e delle librerie costa tanto, forse troppo, ma è vero anche che i libri infondono speranza, collegano gli uomini e le donne fra loro, e così i pensieri, le riflessioni, le culture. I libri costruiscono ponti, consentono di conoscere le speranze e le paure delle persone, danno loro volti e occasioni di dirsi, aiutano ad avere punti di vista diversi, a evitare semplificazioni talvolta pericolose. I libri aprono dialoghi di lungo respiro, e le librerie, le nostre librerie sono luoghi di incontro, luoghi in cui si pongono domande non soltanto tecniche, ma di contenuto, di fede, di cultura, e si trovano risposte. Chi entra nelle nostre librerie, quasi sempre ci ritorna. Ma si legge poco, cari fratelli e sorelle, troppo poco nelle nostre chiese. Troppo poco si parla delle prospettive che i libri aprono e troppo poco si parla dei libri della nostra editrice all’interno delle nostre comunità.
«La fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di cose che non si vedono» (Ebrei 11, 1), dice l’apostolo nella lettera agli Ebrei. Noi di questo viviamo, di questa fede. Su di essa scommettiamo, questa è la fede che ci porta, la consapevolezza che ci fonda, ed è anche la prospettiva che sempre da capo si apre davanti a noi. Si potrebbe anche obiettare che non è gran che la certezza di cose che si sperano e la dimostrazione di cose che non si vedono; eppure, questo filo invisibile tiene salda la chiesa, costruisce speranza, ci colloca nella storia nella prospettiva del Regno, e possiamo riconoscerci circondati, nel passato come nel presente, da fratelli e sorelle sorretti dal medesimo filo tenace. Prendo a prestito un’altra parola della lettera agli Ebrei: «Anche noi, dunque, poiché siamo circondati da una così grande schiera di testimoni, deponiamo ogni peso e il peccato che così facilmente ci avvolge, e corriamo con perseveranza la gara che ci è proposta, fissando lo sguardo su Gesù, colui che crea la fede e la rende perfetta» (12,1-2).
Il nostro Sinodo ha vissuto anche concretamente una «gara». Ha dovuto nominare il nuovo docente per la cattedra di Storia del cristianesimo alla Facoltà valdese di teologia. È stata detta con grande serietà la nostra gratitudine a Dio per aver avuto 5 candidature: non era e non è un modo di dire. Vuol dire che siamo ricchi di doni e di vocazioni e questa è una benedizione, siamo ricchi di testimoni e vocazioni in Italia e fuori di essa, perché i confini della comunione fraterna non coincidono con i confini di casa nostra. Il Sinodo ha eletto il pastore Lothar Vogel e la chiesa lo sosterrà con la preghiera come sosterrà la Facoltà tutta. Ma qui voglio esprimere personalmente e a nome della chiesa la nostra gratitudine a Pawel Gajewski, Andreas Köhn, Emanuele Fiume e Silvana Nitti, per averci offerto la loro disponibilità e per essersi messi in gioco: non era facile farlo, ma essi sanno, e noi sappiamo, che nella chiesa nessuno perde e ciò che vince è la fraternità che ci permette di esporci alla gratitudine della chiesa.
Nel corso dei nostri lavori Giorgio Gardiol, relatore di una commissione ad referendum, ha citato la favola di Alice nel paese delle meraviglie e ci ha ricordato il suo incontro con il cappellaio matto: Alice chiede al cappellaio quale porta debba aprire per andare avanti e lui le risponde con un’altra domanda: «Tu dove vuoi andare?». Ecco, mi pare una domanda importante nella nostra riflessione. Dobbiamo interrogarci sul dove vogliamo andare, ce lo siamo detti a proposito della diaconia e del servizio del prossimo, della diaconia istituzionale e della diaconia e volontariato nelle nostre chiese. E ce lo siamo chiesti in modo costruttivo. Vogliamo tenere presente lo stesso ordine di domande nel corso dei mesi che verranno, anche come comunità chiamate a predicare e a testimoniare: che porta dobbiamo aprire? Solo la porta della denuncia contro ogni tipo di prevaricazione e di abuso o anche la porta del dialogo e della complessa ricerca delle soluzioni, di passi piccoli e grandi e della pazienza di provare e riprovare sapendo che potranno esserci tempi lunghi e che le soluzioni non sono tutte a portata di mano? Solo la porta delle attività che conosciamo da sempre, che sono nelle nostre tradizioni (lo studio biblico periodico, la corale, le aggregazioni femminili e giovanili e i bazar) o anche la porta di tentativi nuovi che osino proposte diverse, fantasiose, creative, che sappiano ascoltare anche le domande di chi non chiede, anche i silenzi, che sappiano vedere anche le assenze nelle nostre chiese? Dove vuoi andare piccola Unione di chiese metodiste e valdesi?
Abbiamo il tempo e le energie per articolare queste domande e sappiamo che non sono domande disperatamente pronunciate nel vuoto. Le nostre domande che ci poniamo sono indirizzate, e sappiamo che sono ascoltate.
Tratto da Riforma dell'8 settembre 2006 |